2003 - Volti, Galleria il Prisma, Cuneo (Italy)
I volti di Ugo Giletta sembrano riemersi da profondità marine, che pare siano appena defluite da questi paesaggi fisionomici, svelando una presenza antica finalmente riapparsa; l'intensità enigmatica dello sguardo è perforante e inquietante, come il rimanere solitario di due profondi crateri.
I lineamenti sono scultorei, statuari nella loro immobilità: assumono la forma e la dignità di un archetipo, e nella loro intensità, nella loro astrazione, sembrano dare forma all’essenziale. La variabilità è lasciata al caso – affidata all'acqua, al suo impregnare la carta e sfumare i contorni, al suo sovrapporsi in velature pigmentate. La ricerca di verità è invece ancorata alla ripetitività del gesto, ad un procedere ostinato ed ossessivamente reiterato che – nella negazione di ciò che è solo apparenza, nell'inseguire una forma e un'idea dell'essere – diviene esercizio di astrazione mentale, o meglio uno strumento di investigazione filosofica.
La sobrietà dell'immagine, spesso fatta di trasparenze e comunque sospesa nel vuoto, su un fondo informe e incolore, rimanda ad un processo catartico, di purificazione rispetto alle contingenze e di tensione all'assoluto. La replica quasi meccanica dei gesti si veste di ritualità, ed il muovere di Ugo si protrae silenzioso ed amorevole: i volti si trasformano in ritratti, e il dipingere rimanda ad un atto di procreazione intenso e benevolo, dove l'abbozzare di sembianze e di lineamenti risponde all'esigenza di riconoscere e definire le forme dell'interiorità.
L'espressione di questi volti ad un primo incontro è impalpabile e quasi oscura, la loro presenza è eterea, sospesa, solipsistica; quando si tratta di sculture, l'oscillare delle teste grandi e malferme sugli esili corpi filiformi consegna a queste figure un'aura mesta e solitaria, depositaria di una consapevolezza intima e segreta. Colti nella loro moltitudine, in un susseguirsi di variazioni impercettibili, questi personaggi svelano invece sorrisi e malinconie, si animano vicendevolmente, ricompongono un universo di stati d'animo, ma soprattutto popolano quel "mondo immaginale" dove ben si riconosce il lungo pensare di Ugo, diventando i timidi tasselli di un sincero autoritratto.
un'idea di espressionismo esistenzialista
Uno dei motivi di maggiore interesse, per quanto non il solo, dell'opera di Ugo Giletta, è la sua espressa dichiarazione di voler sostenere una posizione filosofica, specificamente esistenzialista, alla quale viene immediato applicare le considerazioni di Pareyson circa la fondamentale identità di creazione artistica e vicenda umana dell’artista, e, più in particolare, il suo illuminante rilievo di teoria dell’estetica per cui “la cosa si rivela nella misura in cui la persona si esprime”.
Un'arte che si fa manifesta espressione filosofica colpisce, da un lato, per la sicura distanza che assume rispetto alle correnti assunzioni artistiche, generalmente rifugiatesi in uno spazio creativo e ideologico in bilico tra estenuante autoreferenzialità e consumata superficialità, dall'altro per la fragile prossimità che acquisisce alla condizione di discorso in divenire proprio della filosofia, e che in quanto tale la condanna ad una costante messa in discussione di sé stessa. L'arte di Giletta vive, così, di un contrasto rigenerante tra forma e pensiero in cui l'una rinvia all'altro, in un arricchimento di significato volutamente scontroso e introverso.
Quanto all'elemento più propriamente artistico, immediata e dichiarata è la parentela di Giletta con l'opera di alcuni esponenti della pittura astratta contemporanea, in particolare con quella di Ad Reinhardt. Dall'artista americano Giletta trae l'elemento mistico di fondo, refrattario però ad un agevole apprezzamento figurativo, ciò che ha fatto parlare alla critica, con riferimento alla posizione di Reinhardt, di "versante freddo della reazione all'informale" (Roberto Pasini), e che si è venuto esprimendo in un'attenzione agli elementi dell'abbandono estetico e del casuale creativo dai notevoli esiti espressivi.
E' sufficiente osservare la serie dei volti, su cui da tempo Giletta ha concentrato la sua produzione, per rendersi conto della profonda consapevolezza di intenti formali che regge, in un sofferto interrogarsi sulla spiritualità dell'immagine, l'opera dell'artista di Revello, svolta in un'apparente iterazione espressiva che svela in realtà l'irriducibile unicità dei singoli risultati . Come in uno specchio critico e artistico, si può così contrapporre all'arbitrarietà del sistematico, di cui parlava Lawrence Alloway riferendosi alle composizioni astratte di Reinhardt, la sistematicità dell'arbitrario attraverso cui si realizza la galleria di non-ritratti dell'umanità che Giletta viene realizzando: i volti di cui si parla non sono che macchie di colore ad acqua applicate con il pennello e rapprese sulla tela, residuo di un'immediatezza gestuale, e al tempo stesso sublimazione della forma nel gesto, che trae la sua origine culturale dall'action painting di Pollock e, più lontano ancora, dai pittori calligrafici cinesi. Il ripetetersi sistematico dell'atto si fonde, in questo modo, con l'arbitrarietà del risultato, in un tacito ma inequivocabile rinvio all'origine stessa della vita ed ai risultati umanamente individuali di questa, rendendo l'artista, e più ancora la sua opera, tramite di questa assunzione esistenziale, "libro muto, puro trascorrere di immagini, passaggi di cronotipi", secondo le parole di Riccardo Cavallo. E', del resto, soltanto attraverso una forzatura volta a rendere più immediatamente percepibili i lavori di Giletta, che si può parlare delle sue macchie come di volti, posto che si dovrebbe piuttosto sforzarsi di accettare l'idea di una pittura definitivamente aniconica, e in quanto tale libera dalle costrizioni del contrasto tra figurativo e astratto, allo stesso modo in cui le macchie di Kenneth Noland facevano parlare al volgere degli anni sessanta di una post painterly abstraction, un'astrazione post-pittorica che non per questo, si badi bene, fa a meno dell'elemento umano. Tale elemento si mostra più evidente, all’interno dell’opera di Giletta, nel ricorso a inserti in piombo o in pelle per i suoi visus, espressione, nel primo caso, di un potere di assorbimento delle immagini e concentrazione assorta su di queste, in voluta contrapposizione alla superficiale immediatezza dello specchio propria della società presente, e condanna, nel secondo caso, di una condizione umana posticcia e degradata a ornamento.
E' un elemento che ritorna, del resto, anche nella serie di opere dedicata da Giletta con continuità quasi ossessiva ad una forma di cuneo virtualmente infinito, il quale attraversa la tela come una ipostatizzazione visiva del tempo umano: l'apparente minimalismo segnico, per certi versi avvicinabile alle soluzioni c.d. hard egde dell’espressionismo astratto degli anni sessanta e rafforzato dall'uso di fondi monocromi, svela in realtà un'opzione filosofica di stampo esistenzialista che trova nel confronto espresso con la condizione tragicamente finita dell'uomo, rispetto alla dimensione infinita del tempo, il suo inizio ed il suo fine. Nella volontà di esplicitare questa condizione di insanabile contrasto, e insieme in omaggio ad una categoria del pensiero di Nietzsche cui l'artista si richiama espressamente come fonte spirituale originaria e chiave interpretativa dell’esistenza, Il dionisiaco e l'apollineo trovano rappresentazione attraverso bande di colore contrastato opposte al campo monocromo su cui si svolge la forma cuneiforme del tempo , segno primario, secondo le parole di Nico Orengo riferite a queste opere dell'artista, di memoria umana e al contempo realtà naturale.
Alla collaborazione con lo scrittore ligure va anche ascritta, merita ricordarlo, l'attività scenografica e più generalmente figurativa svolta da Giletta sul tema dell'immaginario ombroso e delicato del regista americano Tim Burton: nel riprendere in forma di pupazzi, spesso scheletricamente corrispondenti a giochi contorti e sofferenti di filo di ferro, i personaggi del suo Nightmare before Christmas o della raccolta di novelle Morte malinconica del bambino ostrica , tradotta da Orengo per Einaudi, si mostra infine l'aspetto giocoso, e dunque più seriamente umano, dell'espressionismo esistenzialista e visionario di Giletta, l'assunzione cosciente di un lato oscuro, ma non per questo corrispondente al male, del mondo e delle sue forme, svelato quale componente ineliminabile della vita e insieme richiamo ad una consapevolezza artistica e umana capace di superare il superficiale nichilismo dominante.
28 febbraio 2002
La Repubblica - Roma - 2008
Ugo Giletta, artista moderno con radici antiche.
Cuneo Provincia Granda n. 3 Autunno 1999
Sono tornato, poco tempo addietro, come dieci anni fa quando ci siamo conosciuti, allo studio di Ugo, a San Firmino.
È cambiato tutto, non nella calma immemore della cascina che lo ospita, sempre più ridondante di splenditi quadrupedi lattiferi e di tecnologie agrarie, ma nelle cose che Ugo fa, nelle opere.
Intanto, Ugo, dopo essersi dedicato con maestria al video (‹‹Si è messo a fare dei video –scrive Orengo nel “Salto dell’acciuga”-, credo che un po’ sia dovuto al fatto che lo considera un mezzo nuovo, più “moderno” della tela, e un po’ perché stanno in pocospazio e non li vedi se vuoi››), è ritornato alla pittura.
Siamo cambiati noi. Dieci anni in più ci hanno resi più consapevol, più cauti nei giudizi, nelle affermazioni.
Ma Ugo è rimasto un ottimo artista, anzi è cresciuto. Da questo punto di vista, la cosa mi rincuora. Non mi ero sbagliato a credere in lui, a credere nel suo essere artista integrale. Tra le tante delusioni, almeno questa non è venuta.
Nello studio, sito nella vecchia cascina settecentesca un poco diroccata, vi sono alti sgabelli sui quali poggiano delle sculturine con le membra di filo di ferro, modellate nella cera, vestite di panni, con degli strani corredi.
Sono la testimonianza dell’ultima collaborazione con Orengo.
In una sera primaverile di quest’anno, purtroppo afflitta dalla pioggia, in quel di Manta (si doveva essere nel parco del Castello e invece si finì in Santa Maria del Monastero), Orengo ha messo in scena, dopo averle tradotte, le storie melanconiche dello scrittore-regista Tim Burton, autore tanto caro ai giovani, con le sue raggelanti metafore condensate in ironici percorsi, quasi dei nonsense nei quali si riconoscono vari archetipi contemporanei: il bambino-ostrica, la bambina vodoo, il bambino tossico, quello mummia e così via.
Con rara efficacia le sculturine di Giletta simbolizzano queste magre e tristi storielle.
Sono state viste a Genova, in seguito, e meritano certamente una riproposizione più ampia.
Ritrovo i tratti del lavoro di Giletta che bene conosco: la scabra essenzialità del linguaggio, l’adesione filosofica a un tema, l’approfondimento di un carattere, l’amore per la costruzione logica complessa, degna di un artista della cerchia di Federico II, ignaro di ben poche cose, attento a tutto.
Ora, tutto è ridotto alla pietas di queste statuine, a questo presepe desertificato. Che grida.
Urlo. Mi colpisce come un urlo, una cosa che chiude la bocca dello stomaco questo ritorno ritorno di Giletta alla pittura: Dopo le sculture mi mostra una serie di acquerelli. Sono una serie infinita di variazioni, su carta e su tela, in dimensioni diverse, di un’unica immagine che però è, in ciascuna di esse, mille altre immagini. È un volto. Più che un volto, un buco nero, nel quale la visione si immerge, come attratta e risucchiata. Si entra, si penetra, si è avvinti, metabolizzati ed espulsi, da queste occhiaie vuote, dalle narici, dalle bocca soprattutto: antro oscuro, atrio di grotta, voragine che attrae e respinge.
Possono essere disposti singolarmente o in schiera con un effetto, in questo caso, da esercito di terracotta cinese.
Singolarmente, possono essere osservati anche per ore: c’è tanto da vedere. Attraggono come un paesaggio e sempre c’è qualche risvolto o particolare da scoprire e da considerare.
Intuisco la possibilità di una grande mostra. Qualcuno la farà. Solo la sua riservatezza impedisce a Ugo, oramai, di raccogliere il successo che merita.
Dopo, stiamo ai “Pesci Vivi”, l’osteria anch’essa immortalata da Orengo nel suo libro. C’è la toppia e c’è il secchio sotto il rubinetto con dentro le bottiglie di vino, “al fresco”.
In seguito al Salto dell’acciuga qualche avventore acculturato vi fa scalo.
Piaceva anche a Giulio Einaudi venire qui, dopo essere stato nello studio di Ugo.
Giletta mi mostra una fotografia: loro seduti a tavola, con le bottiglie di vino davanti. È un poco incredulo che persone così note e importanti si siano potute interessare al suo lavoro. Ma così è il gioco della vita. Ugo lo sa. L’atteggiamento sue è moderno e antichissimo a un tempo.
Occorre essere avveduti, sapere tutto ciò che è possibile sapere ma, al fine e al principio di tutto, vi sono sempre un’alfa e un’omega.
Il contadino di mille anni fa dissodava una zolla e pregava o imprecava. Adesso, Ugo finisce il suo acquerello, ieri era un video, l’altro ieri un’installazione, tanto tempo fa un ritratto e si è sempre avvolti dalla stessa sensazione di mistero, di impotenza e di precarietà.
Il lavoro fatto bene è una delle poche cose concrete che restano.
2006 - Collectors 1, Collezione La Gaia - Filatoito Rosso, Caraglio (CN) (Italy)
Ugo Giletta è un artista autodidatta, cresciuto a San Firmino, una piccola frazione del comune di Revello, il paese nativo del futurista Fillia, vicino a Saluzzo, nella fiera e laboriosa “Provincia Granda” piemontese. Della sua terra conserva la stessa concretezza e serietà che applica nel lavoro artistico e che, come un umile artigiano, porta avanti da ormai più di venticinque anni.
L’arte si è presentata anche a lui, come a tutti gli artisti, quale una necessità, un’impellenza espressiva che inizialmente, forse per la sua impazienza, ha assunto le forme di una pittura, informale ed espressionista.
Negli ultimi dieci anni, Giletta ha sperimentato la scultura, l’installazione e il video, ed è approdato a una pittuta che si potrebbe definire di meditazione, dove il gesto ha perso violenza e immediatezza e ha invece acquisito una maestria formale che si esprime più nel togliere che nell’aggiungere, dando la sensazione di una dilatazione temporale del tratto pittorico come pure della percezione visiva dello spettatore. Si tratta di qualcosa di immediatamente intuibile di fronte agli acquerelli che raffigurano grandi volti diafani, che sembrano emergere dal fondo bianco della tela: il tempo sembra essersi fermato, la tela preparata a gesso appare come una superficie ghiacciata e questi volti delicati e tristi sembrano ibernati, intrappolati nelle pagine scolorite di una storia che il mondo sta per dimenticare.
Giletta dice di aver spesso accostato alle sue opere non figurative una fotografia, un’immagine del passato di una persona sconosciuta, ma a questo rispetto e amore per le cosa antiche, come la sua vecchia casa di campagna in cui è nato e cresciuto e di cui si prende cura, egli unisce uno sguardo sorprendentemente moderno e quasi avveniristico.
Le sue sagome bianche sembrano cloni, esseri tutti uguali e senza identità, ancora intrappolati nell’angosciosa condizione umana ma proiettati verso un futuro che l’arte prevede da anni post-umano (basti pensare ai manichini di Charles Ray, agli esperimenti genetici di Matthew Barney).
Giletta incarna il dilemma del presente, di un mondo dove il vintage è di moda solo nell’abbigliamento e il passato è negletto, rifiutato in quanto sinonimo di invecchiamento, di imperfezione, mentre il contemporaneo è desiderato e corteggiato perché giovane, sempre più giovane e senza ingombranti radici.
Questo artista che, come dice Nico Orengo, è “uomo di terra, che conosce stagioni e geografie, viottoli di campagna, sentieri di montagna, greti di torrenti e la pietra del Monviso”, è stato sedotto dalla poesia di Rilke, dalla filosofia di Nietzsche, di Levinas e Bataille, ma ha saputo concretizzare queste suggestioni in un’arte fatta di amorevole cura per la materia pittorica, che egli afferma essere la nobiltà delle espressioni artistiche.
Bibliografia:
N. Orengo, Il salto dell’acciuga, Einaudi Editori, Torino 1997.
AA.VV., Volti, Galleria Il Prisma, Cuneo 2003.
G. Curto (a cura di), Genius Loci, Castello di Racconigi, Racconigi (CN) 2004.
G. Curto, G. A. Farinella (a cura di), 20 Proposte XX, Regione Piemonte, Torino 2005.
N. Mangione, N. Orengo (a cura di), La bicicletta di Jarry, Galleria Gianpiero Biasutti, Torino 2005.
English text
In the last decade Ugo Giletta has experimented with sculpture, installations and video, and has set his sights on a meditative painting style. Here the action has lost its violence and immediacy and has taken on a kind of formal mastery, which expresses itself better in what it removes than what it adds, giving a sensation of temporal dilation of the painting. It takes the form of something that is immediately apparent from the watercolours depicting large transparent faces, which appear to emerge from the white background of the canvas itself: time seems to have stopped, the chalk-treated canvas looks like a frozen surface and these delicate and sorrowful faces appear almost hibernated and trapped in the faded pages of a story that is about to be forgotten by the world. Giletta embodies the dilemma of the present, of a world in which the past is rejected as being synonymous with age, and imperfection, while what is modern is desired and courted for being young and free of any tiresome roots.
Proposte IX, Palazzo I.R.V.(assessorato alla cultura), Torino (Italy)
Epifania della morte e mondo immaginale (per Ugo Giletta)
Visus, il volto, lo sguardo, il video: da Rainer che non esistono facce brutte e facce belle, ma solamente facce vive e facce morte;
da Baudelaire: ogni immagine è decomposizione -esiste anche l'altra versione dello sguardo e dell'immaginario, sotto il segno dell'immobilizzazione definitiva, patrona nè è Medusa.
Qui: nulla di tutto ciò è estraneo, ma nulla di tutto ciò viene reiterato non senza che vi si introduca il nuovo, in chiave escatologica, dunque nell'ordine d'un addentramento, sempre più profondo, nell'indicibile.
Ancora qui: la risposta del visus, sguardo, volto, corpo, nella piena totale reversibilità di vita e morte; vincitore della roccia e della pietra così il curriculum dell'alchimista.
Giletta a sua volta diviene, sotto i nostri occhi un libro muto, puro trascorrere di immagini, passaggio di cronotopi; qui ancora facce vive facce morte, sotto il segno dell'indicibilità della memoria.
Impossibile non richiamare la fenomenologia hegeliana, dove si dice dell'atto di forza supremo, riguardare e mantenere l'opera della morte: così Ugo Giletta.
2003 - Catalogo - Volti, Galleria il Prisma, Cuneo (Italy)
Folla Indistinta
Ugo Giletta in questi suoi nuovi dipinti raffigura volti diafani, eterei, incorporei come ectoplasmi o postmoderne sindoni.
I lineamenti del viso sono privi di una ben precisa identità, così appena accennati ad acquerello e la fisionomia sfumata, quasi dissolta diluendo il colore grigio-azzurro fino al punto da lasciarlo confondere col candore della carta risparmiata e non dipinta. Da questo esercizio lento, pacato, fluido, assorto e virtuoso, ossessivamente ripetuto più e più volte, “fino alla nausea” - come ci confida in un suo scritto lo stesso Giletta - nascono opere di vario formato, nelle quali il più delle volte prevale una grandezza pari al vero, realistica.
La mostra è nel suo insieme una galleria di ritratti che non raffigurano nessuno, ma rappresentano solo l’identità fluida della nostra società occidentale di massa e globalizzata. I dipinti danno corpo e carne all’anonimato di una folla indistinta, dove non c’è più una nitida distinzione di razza, colore, nazionalità e, paradossalmente, neppure più una rigida separazione per sesso, età e classe sociale. In un’epoca definita Post Umana siamo tutti potenziali cloni e mutanti, grazie alla cosmesi, alla medicina, alla chirurgia plastica, al constante innestarci e amalgamarci gli uni insieme agli altri. Giletta presenta decine di volti deformati come nell’Urlo di Munch, solo che in lui non c’è l’angoscia esistenziale tipicamente espressionista, perché qui prevale la coscienza dell’avvenuto superamento del nichilismo post-strutturalista, antiumanista, tanto in voga negli anni ’80 e ‘90 e si può cogliere la ricerca di un nuovo umanesimo relazionale, alla Levinas. Forse è per questa ragione che questi volti gli uni accanto agli altri diventano belli e sereni. Quasi fossero immagini di Anime, oppure volti d’Angeli scesi fin qui giù sulla nostra Terra, provenienti come extraterrestri da un lontano, misterioso, mistico Aldilà.
C’è uno spiritualismo forte nel lavoro di Ugo Giletta, che può essere ricondotto oltre che al filosofo Emmanuel Levinas ai versi di Rainer Maria Rilke, il poeta che il nostro artista di San Firmino più ama e tanto spesso cita e “inserisce” nel suo lavoro (cfr. il video). Tanto che, per concludere questa breve e forse inadeguata presentazione, il miglior modo è citare alcuni versi di Rilke che ci permettono di capire il senso ermeneutico di questi visi pallidi, emaciati, ermetici, che con occhi stupefatti ci osservano e ci appaiono come la rivisitazione postmoderna dei metafisici, estatici, antichissimi Ritratti del Fayum.
Gli Angeli sono tutti tremendi. Eppure, ahimè,
io invoco voi, uccelli d’anima che quasi fate morire,
pur sapendovi. Dove sono i giorni di Tobia,
quando uno dei più radiosi si stette all’umile porta di
casa
un po’ travestito da viaggio e, così, già non più pauroso,
(giovane al giovane che guardava fuori curioso).
Si movesse ora l’Arcangelo, il pericoloso, si movesse da
dietro le stelle
di un passo soltanto, giù verso di noi: con la violenza
del battito, ci ucciderebbe il nostro proprio cuore. Chi
siete voi?
Voi primi perfetti, viziati della creazione,
profili di vette, creste di tutto il Creato
rosse d’aurora, - polline della divinità in fiore,
articolazioni di luce, anditi, scale, troni,
spazi d’essenza, scudi di delizia, tumulti
di sentimento in tempeste d’entusiasmo, e a un tratto,
uno per uno,
specchi: la bellezza che da voi defluisce
la riattingete nei vostri volti.
Ma per noi, sentire è svanire; ah, noi
ci esaliamo, sfumiamo; di brace in brace
buttiamo odore più lieve. Ecco, qualcuno ci dice:
sì, tu mi entri nel sangue, questa stanza, la primavera,
s’empie di te…Che giova, egli non può trattenerci,
noi svaniamo in lui e intorno a lui. E la bellezza
oh, chi la trattiene? Sul volto la sembianza
sorge e spare senza posa. Come rugiada dall’erba novella
quel che è nostro svapora da noi, come il calore da
vivanda calda. Oh, sorriso, dove mai? Oh alzar d’occhi:
nuova, calda, fuggitiva onda del cuore –
ahimè: eppure siamo questo, noi. Avrà forse sapere
di noi il cosmico spazio in cui ci dissolviamo? Sarà vero
che gli Angeli
attingono soltanto dal loro, emanato da loro,
o c’è talvolta, come per sbaglio, un po’
d’essere nostro? Ai loro tratti
siam misti soltanto così, come quel che di vago ch’è nel
volto
delle gestanti? Gli Angeli non se ne accorgono nel
vortice
del loro ritorno a se stessi. (come potrebbero
accorgersene).
I Video.
Giletta usa video, si avvale dell tecnologia digitale per navigare attraverso l’intersezione del corpo e del volto nella dimensione della macchina da presa.
Piuttosto che camuffare l’uso della tecnologia nel suo lavoro, l’artista si concentra sullo sforzo di portare lo spettatore ad una conclusione.
L’atto di presentare immagini, oggetti ed esperienze dialogiche psicologicamente ed esteticamente evocative porta l’energia dell’immagine ad implodere in sé e questa è la conclusione finale al breve incontro con noi stessi, all’esperienza verso la quale il lavoro di Giletta ci sospinge.
Le Sculture
Le esplorazioni delle forme in scultura, hanno portato Giletta a creare un teatro di marionette e questo lo contraddistingue come un innovatore della commedia teatrale dell’inesistenza. C’è una commedia dei ruoli con elementi e personaggi. Un lavoro artistico puntuale che corrisponde ad un ambiente fisico e richiede una reazione da parte del visitatore, mentre contempla l’artista come ladro di volti, un rapinatore mascherato di sogni impossibili.
Le sculture ci rimandano molti aspetti di solitudine, contemplazione, crisi di identità, etc.
I volti.
I volti ci affascinano e producono un avvenimento di realtà dislocata.
Ovviamente, è pure presente un elemento di scarto ironico nei confronti della ritrattistica tradizionale e alla moda.
In THE KOOKJE DAILY NEWS - Corea
«Vernissage», allegato a «Il Giornale dell'Arte» di Dicembre 2008
Ugo Giletta è un artista anticonformista per eccellenza, allergico ad ogni forma di esibizione, occorre andare a 'snidarlo'. Cosa che facciamo di tanto in tanto a seguito di questa o quella notizia che ci giunge dalle testate giornalistiche o dalle riviste specializzate.
Atteggiamento snobistico? No, perchè il piacere quasi di rispettoso affetto con il quale ci accoglie, è tanto eloquente quanto disarmante.
Questo è il fermo immagine attuale di Ugo Giletta, che incontriamo nel suo studio di Manta alla vigilia della mostra che venerdì 20 maggio, alle 17.30, aprirà i battenti nei padiglioni dell'Ex Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi. Una mostra dal titolo: Immagini dell'abbandono, a cura del noto storico e critico d'arte Lórànd Hegyi e realizzata per la Provincia di Cuneo su invito dell'assessore alla Cultura dott.Licia Viscusi.
Una manifestazione realizzata con la collaborazione del Comune di Racconigi e l'Asl Cn1, proprietaria degli immobili, in ambito al progetto
'Memoria e Territorio', attività di spicco per il 2011.
A Giletta il merito, quindi, di ricordare con questa mostra i dimenticati spazi di quei luoghi chiusi dopo la legge Basaglia e per restituire a chi li ha vissuti, il tempo a loro rubato, per impedire che accada ancora ció che è appena dietro l'angolo di pareti ammuffite: poveri volti indovinati, pensati, visti, catturati e proiettati.
Tutto questo "gioco", Giletta lo realizza nel silenzio profondo che avvolge gli ambienti, scandito soltanto da voluti rumori di ventole e proiettori, che si spacca improvviso all'elenco infinito di nomi dal mondo della voce automatica di un software, con la tecnologia raffinata di video, proiezioni sofisticate di diapositive, ossessivi filmati vintage e slowmotion al limite della fotografia.
LE MIE FACCE IDEE ASTRATTE DI UN VOLTO
Per Ugo Giletta il volto è l' essenza dell' umanità, un luogo concettuale in cui spazio e tempo galleggiano sospesi, alla ricerca dei segni essenziali capaci di rapprenderne il mistero. I suoi volti scarnificati fino all' impronta minimale arrivano da lontano: «Già da bambino disegnavo le teste di Leonardo - dice l' artista - poi la ricerca è continuata con uno scopo non rappresentativo ma simbolico, usando per anni come modello la fotografia di una bambina. Ho capito di aver raggiunto il mio obbiettivo quando nessuno mi ha più chiesto di chi fossero le facce, perché ero arrivato al volto come idea astratta». Volti anonimi ma universali, sempre lo stesso, però ogni volta diverso. Nella grande mostra che Giletta ha recentemente allestito nell' ex manicomio di Racconigi, migliaia di metri quadri erano disseminati di queste apparizioni liquide in bianco e nero, che baluginavano su tele, foto e video. Installazioni rarefatte che riassumevano perfettamente l' essenza di Giletta: anime che sorridono, piangono, riflettono ma soprattutto guardano lo spettatore, testimoni ed evocatrici di un tempo che si è fermato ed è scomparso dalla memoria di tutti, di un' assenza e di un vuoto che raccontano la presenza di altre vite lontane.
Catalogo della mostra. 2008
Il volto dell'altro, LipanjePuntin artecontemporanea , Roma (Italy) - L'immagine come rivelazione, LipanjePuntin artecontemporanea, Trieste (Italy)
L’immagine come rivelazione. Le forme del nudo contemporaneo Annotazioni sul lavoro di Ugo Giletta
“Totale assenza d’illusione sulla contemporaneità e allo stesso tempo un’incondizionata consapevolezza della stessa”
(Esperienza e povertà) Walter Benjamin
Teste, volti, ovvero corpi, sdraiati oppure a carponi sono i soggetti delle tele di Ugo Giletta, parsimoniose, concentrate al massimo, cromaticamente ridotte al minimo.
Egli evita ogni riferimento aneddotico, ogni rimando letterario al tempo e al luogo, a una qualche concreta spazialità, a qualcosa di simbolico o culturalmente, storicamente identificabile. Egli rifiuta qualsiasi descrizione di tipo tradizionale.
Le teste e i corpi stanno soli e isolati in uno spazio vuoto plasticamente indefinito, metaforicamente indefinibile e non contestualizzabile; anche se lo stesso vuoto dello spazio non si rivela un’esperienza fisica concreta ma un’indifferenziata, oggettiva, reale assenza di un sistema di segni simbolici.
Le teste, i volti e i corpi sono rappresentati con il minimo del concretismo plastico. Non sono ritratti, non sono rappresentazione di qualche identificabile persona. Sono impersonali ed estranianti, tangibili e muti. La loro enigmatica estraneità non si lascia catalogare o classificare in qualsiasi o qualsivoglia sistema. Sono semplicemente là, nella loro reale oggettività, senza spiegazione sulla propria appartenenza, sulla propria provenienza, sulla propria storia o sul proprio essere. Come l’assenza di tratti caratteristici personali e fisici della figura, così pure l’assenza di una contestualizzabile, vale a dire conosciuta composizione cromatica della loro fisicità, li estranea da qualsiasi narratività. Loro stanno là, senza una storia propria, senza pathos e senza patria.
I toni terra e grigio-blu suggeriscono qualcosa di arcaico e lontano, qualcosa di straniero e tangibile, scultoreo, anche se i corpi sono riscaldati da una latente ma forte e irresistibile sensualità. Sono esseri viventi ma non sono esistenze personificate, concrete, accessibili. Questo apparente antagonismo rafforza la sostanziale determinazione poetica e l’indissolubile ambivalenza di queste forme: da una parte, davanti a noi, c’è qualcosa di remoto, solido, chiuso, compatto, denso, semplice e universale, le cui connotazioni attivano la rappresentazione archetipica del corpo umano quale unico, forte, rilevante, inevitabile, fondamentale riferimento dell’orientamento mentale. Dall’altra le forme assumono una certa percettibilità diretta e fisica, particolare di specifici momenti dell’Essere sensuale, vale a dire che iniziano ad esistere come qualcosa di provocatoriamente esigente, forte, vitale, sovrano, inconfondibile; ciò nonostante, esse non sono persone concrete, non sono partner. Hanno il loro posto nel mondo, riempiono lo spazio vuoto, sono presenti, ma il loro enigmatico silenzio, la loro realtà impalpabile, solida, non contestualizzabile, fa di loro degli stranieri. Ma questo straniero può non di meno far parte della nostra vita, della nostra esperienza. E’ come se lo conoscessimo.
Nonostante queste forme enigmatiche siano immobili e quasi senza volontà nello spazio vuoto, indefinito, o forse per essere più esatti vi sono state collocate, nonostante esse suggeriscano una certa atemporalità e una reale indifferenza, mantengono non di meno una tensione interiore, nascosta, un’incredibile latente energia che esse sembrano poter controllare. Come in un eterno stato d’attesa sono in un non-luogo, in un vuoto indefinito, anche se da un momento all’altro può accadere una trasformazione, ovvero un drammatico, essenziale mutamento di status, un radicale rovesciamento del proprio essere e della propria storia. Esattamente questa inquietante ambivalenza rende queste figure così suggestive ed interessanti, esattamente questa potenzialità latente di una storia vera le rende importanti per noi: portano con sé un messaggio, hanno un fondamentale significato per l’osservatore, suggeriscono la loro capacità di poterci comunicare qualcosa di essenziale, nonostante la loro indifferente, immobile realtà, nonostante il loro impenetrabile silenzio. Questo enigmatico, reale, suggestivo silenzio ha in sé qualcosa d’antico, arcaico, barbarico, qualcosa che ricorda le grandi esperienze condivise.
Nel saggio Esperienza e povertà Walter Benjamin parla di un nuovo “Barbarentum”, un nuovo barbarismo che nasce dalla drammatica esperienza della povertà nell’epoca moderna, dove “l’infinitamente fragile corpo umano”, solo e privo d’aiuto, è completamente abbandonato alla rischiosa e gigantesca evoluzione della tecnica. Secondo Benjamin questa nuova situazione rappresenta una sfida per l’artista contemporaneo che si manifesta nella forma di un nuovo barbarismo. Dal suo punto di vista i più importanti artisti contemporanei per eccellenza, come ad esempio Bertold Brecht, Paul Klee o Adolf Loos si concentrano sull’essenziale, sul fondamentale, sulla radicale contemporaneità che si esprime paradossalmente nella forma di un nuovo barbarismo. “Quest'esperienza della povertà non è solamente povertà materiale ma è soprattutto povertà dell’esperienza umana. E’ quindi la forma di un nuovo barbarismo. Barbarismo? Proprio così. Lo affermiamo per introdurre un nuovo positivo concetto di barbarismo. Dunque a cosa è spinto il barbaro dalla povertà dell’esperienza? E' spinto a ricominciare dall’inizio, a ripartire da zero, a sopravvivere con poco, a costruire con poco…” (1)
“Sopravvivere con poco”, dice Benjamin, vale a dire essere poveri e come poveri lavorare, esprimersi, esistere. La povertà dell’esperienza, concreta, come lui la descrive, la riduzione di tutte le esperienze di vita all’emarginazione dell’uomo nell’epoca moderna, la perdita della molteplicità delle esperienze crea una nuova povertà, dove gli artisti sono costretti “a costruire con poco”. Benjamin analizza la generale esigenza degli artisti contemporanei, “a ripartire da zero, a sopravvivere con poco. ” Benjamin sottolinea il legame tra la drammatica, distruttiva, preoccupante perdita della molteplicità delle esperienze umane anche tra la povertà della vita e la povertà dell’arte contemporanea che egli definisce nuovo “Barbarentum”, e che valuta positivamente perché il vero artista contemporaneo col suo “nuovo barbarismo” manifesta e scopre la vera essenza dell’epoca moderna. La povertà è addirittura un imperativo etico. La povertà si chiama verità, impegno per l’autentico contemporaneo. L’autentico contemporaneo parla della vera situazione dell’uomo dei nostri giorni, perciò opera col poco, che si manifesta come il nuovo barbarismo.
Questo poco significa riduzione, concentrazione, compressione; significa creare una forte, semplice, disadorna immagine barbarica che mostra l’elementare, ineluttabile verità, e il contemporaneo per eccellenza, senza orpelli ed idilli senza la legittimazione di tradizioni e convenzioni e soprattutto senza la legittimazione della bellezza. In questo senso Benjamin ritiene che il coraggioso, grande, addirittura “irriducibile” artista contemporaneo “…disgustato dalle umane immagini tradizionali, nobili, modaiole, decorate di reliquie del passato, si rivolge al nudo contemporaneo, che urlante come un neonato giace nelle immonde fasce di quest’epoca.” (2)
Questo “contemporaneo nudo” appare nelle tele, silenziose, parsimoniose, realizzate con poco, realmente enigmatiche, di Ugo Giletta. Le sue forme sono personificazioni della povertà, poiché esse sono ridotte all’essenzialità dell’esperienza di vita. Le forme sono immagini archetipo dell’essere umano, a volte solo teste, a volte corpi, senza identità, senza dettagli, senza volontà. La loro unica funzione è la loro presenza, il loro immobile Essere.
Povertà significa: la radicale concentrazione sul contemporaneo per eccellenza, il conseguente rifiuto d’ogni forma d’abbellimento dello stato del nudo contemporaneo, aneddotico, idillico, armonico, l’interesse alla realtà contemporanea, l’impegno per una vera immagine dell’umano che non è più legata alle grandi storie di legittimazione. Questa radicalità, che da Benjamin viene valutata positivamente quale base del “nuovo barbarismo”, non è in nessun caso solo una categoria estetica ma anche etica, visto che rappresenta il fermo impegno per l’immagine autentica dell’umanità.
Tutto ciò crea una forte, convincente, solida poetica coerenza. Paradossalmente la forma barbarica, reale, immobile, minimalmente creata, abita dentro una drammaticità latente, nascosta e una conseguente suggestione enigmatica, ma la emozionalità non acquista nessun ulteriore elemento personale, privato, aneddotico che potrebbe attirare l’attenzione dell’osservatore in una qualche direzione; la povertà della tematica è la fonte dell’autenticità e della verità di questa rappresentazione. Ugo Giletta è riuscito a catturare la vera autentica povertà dell’immagine e senza ricorrere a qualsivoglia banale stilizzazione o a comodi arcaismi.
Ma povertà della tematica non significa che primigenie esperienze elementari immagazzinate nel profondo della psiche, come paura, vergogna, oppressione, frustrazione, umiliazione, dolorosi tristi incontri e tristi perdite non siano assorbite dall’esperienza intera. Le forme di Ugo Giletta sono muti testimoni della nostra epoca che hanno trasformato in realtà “la povertà dell’esperienza umana”; il loro essere esprime questa condizione del mero esistere. Sono come raccoglitori che si possono osservare solo dall’esterno, ma il cui interno è ricco di contenuto. La loro forte dichiarazione poetica risiede appunto in questo loquace silenzio: sanno molto, hanno visto molto, sono state plasmate dagli avvenimenti e dagli eventi della nostra epoca, sono state formate dalla povertà. Il loro Essere in questa forma tangibile è testimone di un messaggio senza storie, senza aneddoti, senza ulteriori riferimenti letterari, la loro povertà è la loro forza, il loro Essere nudo, puro, reale, privo di pathos, rappresenta la loro autentica, discreta, sicura, dichiarazione: sono le forme del “nudo contemporaneo”.
Note
1 Walter Benjamin: Erfahrung und Armut. In: Sprache und Geschichte. Philosophische Essays. Philipp Reclam jun., Stuttgart, 1992. p. 135.
2 Walter Benjamin: Erfahrung und Armut. In: Sprache und Geschichte. p. 137.
Image as Revelation. Forms of Contemporary Nude. Notes on the work of Ugo Giletta
A total absence of illusion about the age and, at the same time, an unlimited awareness of it.
Experience and Poverty, Walter Benjamin
The subjects of Ugo Giletta’s canvases are heads and faces, or bodies lying down or crouching. They are parsimonious and concentrated to the highest degree, chromatically reduced to a minimum. He avoids any anecdotal references, and there are no literary references to time and place, to any concrete space, and to anything symbolic, or culturally and historically identifiable. He refuses any traditional form of description.
His heads and bodies stand alone, isolated in a sculpturally undefined and empty space. A space that is metaphorically indefinable and that can never be placed in context, even though its very emptiness is not revealed as a concrete physical experience, but rather as the indiscriminate, objective, “real absence” of a system of symbolic signs.
The heads, faces, and bodies are portrayed with a minimum of plastic “concretism”. They are not portraits, nor are they the representation of some identifiable person. They are impersonal and alienating, tangible and mute. Their “enigmatic extraneousness” refuses to be catalogued or classified by any system whatsoever. They are simply there, in their total objectivity. There is no explanation about their affiliation, their provenance, their history, or their being. Together with the absence of any personal and physical features in the figures, the absence of any contextualisation – in other words, any known chromatic composition of their physical presence – also alienates them from any potential narrative. They are just there, with no story of their own. With no pathos, no home.
The earthy tones and the blue-greys suggest something archaic and distant, something foreign and tangible. And sculptural, even though the bodies are warmed by a latent yet powerful and irresistible sensuousness. They are living beings and yet they are not personified, concrete, accessible existences. This apparent antagonism reinforces the fundamental poetic resoluteness and the indissoluble ambivalence of these forms. On the one hand, we find ourselves facing something remote, solid, closed, compact, dense, simple, and universal, the implications of which lead to the archetypal portrayal of the human body as a unique, strong, relevant, inevitable, and fundamental reference for our mental orientation. On the other hand, these shapes acquire a certain direct and physical perceptibility, which is peculiar to particular moments of the sensual being, which means that they come into existence as provocatively demanding, powerful, alive, supreme, and unmistakable entities. And yet, despite all this, they are not concrete people. They are not partners. They have their place in the world, for they fill up empty space and they are present, but their enigmatic silence, their impalpable, solid reality, which cannot be placed in context, makes them “alien”. And yet these aliens can nevertheless be part of our lives and of our experience. It is as though we knew them.
Even though these enigmatic shapes are motionless and almost unwillingly in an empty, undefined space, or possibly, to be more precise, in one they have been placed in, and despite the fact that they suggest a certain timelessness and real indifference, they nevertheless maintain an inner, hidden tension. An incredible latent energy that they seem able to control. As though in an eternal state of expectation, they are in a non-place, in an undefined void, even though from one moment to the next a transformation might occur. They could be subject to a dramatic and fundamental change of status, a radical overturning of their own being and history. It is exactly this disturbing ambivalence that makes these figures so appealing and interesting, and it is this latent potential of a true story that makes them so important for us. They bring us a message, and they have fundamental significance for the observer, suggesting their ability to convey something essential to us, despite their indifferent, motionless reality. Despite their impenetrable silence. This enigmatic, real, and evocative silence contains something antique and archaic, something barbaric that recalls the great experiences they have in common.
In his essay Experience and Poverty, Walter Benjamin talks of a new “Barbarentum”, a new barbarism that comes from the dramatic experience of poverty in the modern age, in which the infinitely fragile human body, so alone and so helpless, is completely abandoned to the dangerous and overwhelming evolution of technology. According to Benjamin, this new situation has become a challenge for contemporary artists, and it appears in the form of a new barbarism. From his point of view, the most important and iconic contemporary artists, such as Bertolt Brecht, Paul Klee, and Adolf Loos, concentrate on the essential and the fundamental, on the radical contemporaneity that is paradoxically expressed in the form of a new barbarism.
“This experience of poverty is not just one of material poverty but especially of the poverty of human experience. It is thus the form of a new barbarism. Barbarism? Precisely. We make this statement to introduce a new, positive concept of barbarism. So what is the barbarian forced into by the poverty of experience? He is forced to start from the beginning, to go back to zero, to survive on little, and build with little...”1.
“Surviving on little”, says Benjamin, means being poor and, like the poor, working, expressing oneself, and existing. The poverty of real experience, as he describes it, the reduction of all life to the marginalisation of man in the modern age and the loss of the plurality of experiences, creates a new form of poverty, in which artists are obliged to “build with little”. Benjamin analyses the general need of contemporary artists to go back to zero and “survive on little”. He highlights the link between the dramatic, destructive, worrying loss of the multiplicity of human experiences also within the poverty of life and the poverty of contemporary art. He refers to this as a new “Barbarentum”, which he assesses positively, because the true contemporary artist with his “new barbarism” reveals and discovers the true essence of the modern age. Poverty is even an ethical imperative. Poverty is called truth, and a commitment to contemporary authenticity. “Contemporary authenticity” tells us of the real situation of present-day man, and thus works with “little”, which appears as a new form of barbarism.
This “little” signifies reduction, concentration, and compression. It means creating a strong, simple, and austere barbaric image that illustrates the elementary and inevitable truth, and the “contemporary par excellence”, free of any trimmings and idylls, with none of the legitimisation of tradition and convention, and without even the legitimisation of beauty. In this sense, Benjamin considers that the great, courageous, even “inveterate” contemporary artist, “...disgusted by traditional, noble, trendy human images, decorated with relics of the past, should turn to the contemporary nude which, screaming like a newborn baby, lies in the foul bundles of that age”2.
This “contemporary nude” appears on Ugo Giletta’s truly enigmatic and silent, parsimonious canvases made with “little”. His forms are the personification of poverty, for they are reduced to the essentiality of the experience of life. These forms are the archetypal images of the human being – sometimes just heads, sometimes bodies, deprived of identity, and with no details, no willpower. Their sole function is their presence and their “motionless being”.
Poverty signifies a radical concentration on the quintessence of the contemporary world, and the consequent refusal of all forms of embellishment of the state of the contemporary nude – anecdotal, idyllic, harmonious – and an interest in contemporary reality. It is a commitment to a true image of humanity that is no longer linked to the great stories of legitimisation. This radicalism, which was viewed positively by Benjamin as the basis of a “new barbarism”, is in no case simply an aesthetic category, for it is also ethical, considering how it represents a firm commitment to achieve an authentic image of humanity.
All this creates a powerful, convincing, and solid poetic consistency. Paradoxically, the barbaric, real, immobile, minimally created form exists within a latent and hidden drama and within a consequently enigmatic suggestiveness, and yet the feeling of emotions acquires no further personal, private, anecdotal element that might draw the attention of the observer in one particular direction. The “poverty of the theme” is the source of the authenticity and truth of this representation. Ugo Giletta has managed to capture the real, authentic poverty of image and he does so without resorting to any mundane stylisation or easy archaism.
But the poverty of the theme does not mean that primigenial, elementary experiences stored away in the depths of the psyche – such as fear, shame, oppression, frustration, humiliation, and sad, painful encounters and distressing losses – are not absorbed by experience in its entirety. Ugo Giletta’s forms are the silent witnesses of our age. They have transformed “the poverty of human experience” into reality. Their being expresses this state of mere existence. They are like binders that can only be seen from the outside, but which are full of content on the inside. Their powerful poetic declaration is to be found precisely in this loquacious silence: they know a lot, they have seen a lot, they have been shaped by the events and occurrences of our age. They have been moulded by poverty. In this tangible form, their being points to a message without stories, without anecdotes, without any further literary references. Their poverty is their strength, their nude, pure, real being, devoid of pathos. And it represents their authentic, discreet, sure declaration: they are the forms of the “contemporary nude”.
1 Walter Benjamin, Erfahrung und Armut
in: Sprache und Geschichte. Philosophische Essays. Philipp Reclam jun., Stuttgart, 1992. p. 135
2 Walter Benjamin, ibid, p. 137
DAS BILD ALS OFFENBARUNG GESTALTEN DES NACKTEN ZEITGENOSSEN Notizen zur Ugo Giletta’s Arbeit
“Ganzliche Illusionslosigkeit uber das Zeitalter und dennoch ein ruckhaltloses Bekenntnis zu ihm...”
(Walter Benjamin: Erfahrung und Armut)
Kopfe, Gesichte beziehungsweise Korper, liegend oder auf den vier Beinen stehend, sind die Motiven Ugo Giletta’s sparsamen, hochst konzentrierten, farblich ziemlich reduzierten Bilder. Er vermeidet jede anekdotischen Momente, jeden additiven literarischen Hinweis auf den Ort und Zeit, auf etwas konkret Räumliches, auf etwas Symbolisches, oder kulturell und geschichtlich Identifizierbares, er legt jede Beschreibung traditioneller situationeller Positionen ab. Die Kopfe und Korper stehen allein und isoliert in einem plastisch undefinierten, metaphorisch unidendifizierbaren und unkontextualisierbaren, leeren Raum, wobei selbst das Leere des Raumes nicht als konkrete, physische Erfahrung, sondern als indifferente, objektive, dingliche Abwesenheit jenes symbolischen Zeichensystems sich offenbart.
Die Köpfe, Gesichte und Körper sind mit dem Minimum der plastischen Konkretisierung gestaltet. Sie sind keine Portraits, keine Darstellung irgendeiner identifizierbaren Person. Sie sind unpersönlich und fremd, dinglich und schweigsam. Ihre enigmatische Fremdheit lässt sie nirgendwohin einordnen, oder nirgendwo, in irgendeinem System klassifizieren. Sie sind einfach da, in ihrer dinglichen Objektivität, ohne Erklärung über ihre Zugehörigkeit, über ihre Abstammung, über ihre Geschichte oder über ihr Wesen. Wie die Abwesenheit der psychischen, persönlichen Karakterzüge der Gestalten, ebenso die Abwesenheit der kontextualisierbaren, sozusagen bekannten, familiären Farbstruktur ihrer Körperlichkeit verfremden sie von jeglichen Narrativen. Sie stehen da, ohne eigener Geschichten, pathoslos und heimatlos.
Die grau-blauen und Erdfarben-Tonen suggerieren etwas Archaisches und Fernes, etwas Fremdes und Dingliches, Skulpturartiges, obwohl die Korper von einer latenten, aber starken und unwiderstandlichen Sensualitat durchgewarmt sind. Sie sind lebende Wesen, aber keine personifizierbare, konkrete, ansprechbare Existenzen. Dieser scheinbare Antagonismus verstarkt die poetisch determinierende, grundsätzliche und unauflösbare Ambivalenz dieser Gestalten: Einerseits steht etwas Uraltes, Solides, Geschlossenes, Kompaktes, Dichtes, Einfaches und Allgemeines vor uns, welche Konnotationen der archetypischen Darstellungen des menschlichen Körpers als einzige kraftvolle, relevante, unvermeidbare, grundsätzliche Referenz der mentalen Orientierung aktivieren. Anderseits bekommen die Gestalten gewisse unmittelbar und psychisch wahrnehmbaren, partikularen und spezifischen Momente des sensuellen Daseins, das heißt, sie beginnen als etwas äußerst und provokativ Anspruchsvolles, Kräftiges, Vitales, Souveränes, Unverwechselbares zu existieren, obwohl sie keine konkrete Personen, keine Partner sind. Sie nehmen ihren Platz in der Welt, sie füllen den leeren Raum, sie sind anwesend, aber ihr rätselhaftes Schweigen, ihre untastbare, solide, unkontextualisierbare Dinglichkeit machen sie zum Fremden. Aber dieser Fremde mag trotzdem Teil unseres Lebens, unserer Erfahrungswelt zu sein, er kommt irgendwie bekannt vor.
Obwohl diese enigmatischen Gestalten still, bewegungslos und etwa willenlos in dem leeren, undefinierten Raum stehen, besser gesagt, gestellt sind, obwohl sie eine gewisse Zeitlosigkeit und dingliche Indifferenz suggerieren, trotzdem beinhalten sie eine innere, verbergte Spannung, eine merkwürdige, latente Energie, welche sie zu beherrschen scheint. Wie in einem ewigen Wartestand, stehen sie auf einem Nicht-Ort, in einem undefinierten Leere, wobei es in jedem Moment ein Ereignis der Verwandlung, also eine prinzipielle, dramatische Status-Veränderung, eine radikale Umwertung ihres Wesen und ihrer Geschichte geschehen kann. Genau diese beunruhigende Ambivalenz macht diese Gestalten so suggestiv und interessant, genau diese latente Potenzialität einer wahren Geschichte macht sie wichtig für uns: sie tragen eine Botschaft in sich, sie haben eine wesentliche Bedeutung für den Betrachter, sie suggerieren ihre Fähigkeit, trotz ihrer indifferenten, bewegungslosen Dinglichkeit, trotz ihrem unbrechbaren Stille, etwas Wesentliches uns vermitteln zu können. Diese enigmatische, dingliche, suggestive Stille hat etwas Uraltes, Archaisches, Barbarisches in sich, etwas, welches an die großen gemeinsamen Erfahrungen erinnert.
In seinem Essay Erfahrung und Armut spricht Walter Benjamin uber einen neuen Barbarentum, welcher sich aus dem dramatischen Erfahrungsarmut in der modernen Epoche entsteht, wobei der “winzige gebrechliche Menschenkörper” allein und hilflos den negativen, zerstörerischen Kräfte, der gefährlichen und ungeheueren Entfaltung der Technik vollkommen ausgeliefert ist. Laut Benjamin stellt diese neue Zituation eine neue Herausforderung fur die zeitgenossische Kunstler dar, welche in der Form eines “neuen Barbarentums” sich verkorpert. In seiner Betrachtungsweise konzentrieren sich die engagierte, grosse, par excellence zeitgenossische Kunstler, wie etwa Bertold Brecht, Paul Klee, oder Adolf Loos, auf das Essenzielles, auf das Wesentliches, auf das radikal Zeitgenossisches, welche paradoxerweise in der Form des “neuen Barbarentums” sich äußert. “Diese Erfahrungsarmut ist Armut nicht nur an privaten sondern an Menschheitserfahrungen uberhaupt. Und damit eine Art von neuem Barbarentum. Barbarentum? In der Tat. Wir sagen es, um einen neuen, positiven Begriff des Barbarentums einzufuhren. Denn wohin bringt die Armut den Barbaren? Sie bringt ihn dahin, von vorn zu beginnen; von Neuem anzufangen; mit Wenigen auszukommen; aus Wenigem heraus zu konstruieren...” (1)
“Mit Wenigen auszukommen”, sagt Benjamin, das heißt, arm zu sein und als arm zu arbeiten, zu artikulieren, zu existieren. Die Armut an den Erfahrungen, ganz konkret, wie er es beschreibt, die Reduktion aller Lebenserfahrungen auf die Ausgeliefertheit des Menschen in der modernen Epoche, der Verlust der Vielfalt der Erfahrungen, schafft einen neuen Armut, wobei die Künstler dazu gezwungen wurden, „aus Wenigem heraus zu konstruieren“. Benjamin analysiert den allgemeinen und kräftigen Anspruch des zeitgenössischen Künstlers, „von Neuem anzufangen; mit Wenigen auszukommen“. Benjamin betont den Zusammenhang zwischen den dramatischen, zerstörerischen, beängstigenden Verlust an der Vielfalt der Menschheitserfahrungen, also zwischen der Armut des Lebens und der Armut der zeitgenössischen Kunst, den er als „neuer Barbarentum“ benennt, wobei er es positiv bewertet, da der wahre zeitgenössische Künstler mit seinem „neuen Barbarentum“ das wahre Wesen der modernen Epoche enthüllt und manifestiert. Die Armut ist sogar ein ethischer Imperativus. Armut heißt Wahrheit, Engagement für das wahre Zeitgenössisches. Der echte Zeitgenosse spricht über die wahre zeitgenössische Situation des Menschen, deswegen operiert er mit dem Wenigen, welches als „neuer Barbarentum“ aufscheint.
Dieses Wenige bedeutet Reduktion, Konzentration, Kompression; es bedeutet ein kraftvolles, einfaches, ungeschmücktes und wenn man will, barbarisches Image zu schaffen, welches ohne Verschönerung und Idylle, ohne Legitimation durch den Traditionen und Konventionen, vor allem ohne Legitimation durch die Schönheit, das Elementare, das par excellence Zeitgenössisches, das unvermeidbar Wahre aufzeigt.
In diesem Sinne behauptet Benjamin, dass die mutigen, grossen, sogar “unerbittlichen” zeitgenössischen Kunstler “...stossen vom hergebrachten, feierlichen, edlen, mit allen Opfergaben der Vergangenheit geschmuckten Menschenbilde ab, um sich dem nackten Zeitgenossen zuzuwenden, der schreiend wie ein Neugeborenes in den schmutzigen Windeln dieser Epoche liegt.”(2)
Dieser „nackte Zeitgenosse“ erscheint auf den schweigsamen, sparsamen, mit dem Wenigen gestalteten, enigmatisch dinglichen Bildern von Ugo Giletta. Seine Gestalten sind Verkörperungen der Armut, da sie auf das Wesentlichste der Lebenserfahrungen reduziert sind. Die Gestalten sind etwa archetypische Menschenbilder, manchmal nur Köpfe, manchmal der ganze Körper, ohne Personifizierung, ohne Details, ohne psychische Aussage. Ihre einzige Funktion ist ihre Präsenz, ihr bewegungsloses Dasein.
Diese Armut bedeutet die radikale Konzentration auf das par excellence Zeitgenössisches, die konsequente Ablehnung jede Form der anekdotischen, idyllischen, harmonisierenden Verschönerung des Status des „nackten Zeitgenossen“, die Hinwendung zu den zeitgenössischen Realitäten, das Engagement für das wahre Image des Menschen, welcher nicht mehr in den großen Legitimationsgeschichten eingebunden ist. Diese Radikalität, welche als Grundhaltung des „neuen Barbarentums“ und als positiv von Benjamin bewertet wurde, ist keinesfalls nur eine ästhetische, sondern durchaus eine ethische Kategorie, da sie das feste Engagement für das authentische Menschenbild repräsentiert.
Dies erzeugt eine starke, überzeugende, solide, poetische Kohärenz. Paradoxerweise es gibt eine latente, verborgene Dramatik und eine ansprechende, enigmatische Suggestivität in diesen dinglichen, bewegungslosen, sparsam geformten, barbarischen Gestalten, aber diese Emotionalität bekommt keine persönlichen, privaten, anekdotischen Zusatzelemente, welche die Aufmerksamkeit des Betrachters in irgendeine Richtung sozusagen ableiten würden; die Armut der Thematik ist die Quelle der Authentizität und Wahrheit dieser Darstellungen. Ugo Giletta ist es gelungen, diese prinzipielle, ehrliche, einfache Armut des Images zu behalten und keinesfalls irgendeine banale Stilisierung, oder gemütliche Archaisierung anzuwenden.
Die Armut der Thematik bedeutet nicht, dass es tief in der Psyche gespeicherte frühere elementare Erfahrungen, Angst, Scheu, Bedrängung, Frustration, Erniedrigung, schmerzhafte, traurige Begegnungen und traurige Verluste nicht in das Gesamterlebnis aufgenommen wurden. Die Gestalten von Ugo Giletta sind schweigsame Zeuge unserer Epoche, welche „die Armut an Menschheitserfahrungen“ zur Realität gemacht hat; ihr Wesen manifestiert in ihrem bloßen Dasein diesen Zustand. Sie sind wie Speicher, die man nur von außen betrachtet, die aber sehr viel in ihrem Inneren beinhalten. Ihre kraftvolle, poetische Aussage liegt genau in diesem vielsagenden Schweigen: sie wissen viel, sie haben viel gesehen, sie wurden von den Ereignissen und Geschehen unserer Epoche geformt, sie sind durch die Armut gestaltet: ihr Wesen in dieser konkreten Form trägt die Botschaft, ohne Geschichten, ohne Anekdoten, ohne weiteren literarischen Konkretisierungen. Ihre Armut ist ihre Stärke. Ihr bloßes, nacktes, dingliches, pathosloses Dasein ist ihre wahre, bescheidene, solide Aussage: sie sind Gestalten des „nackten Zeitgenossen“.
Notizen:
Walter Benjamin: Erfahrung und Armut In: Sprache und Geschichte. Philosophische Essay Philipp Reclam jun. Stuttgart, 1992. p.135.
Walter Benjamin: Erfahrung und Armut In: Sprache und Geschichte p.137.
Catalogo della mostra. 2011
Immagini dell'abbandono. Ex Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi Cn Italy
Impegno silenzioso
La sconfortante mancanza di tempo
Commenti personali sulle figure senza presente di Ugo Giletta
“...the imagery I am using here to indicate metaphorically and tentatively the contemporary conditions of thought can be valid only within the realm of mental phenomena. Applied to historical or biographical time, none of these metaphore can possibly make sense because gaps in time do not occur there. Only insofar as he thinks, and that is insofar as he is ageless – a ‘he’ as Kafka so rightly calls him, and not a ‘somebody’ – does man in the full actuality of his concrete being live in this gap of time between past and future. The gap, I suspect, is not a modern phenomenon, it is perhaps not even a historical datum but is coeval with the existence of man on earth. It may well be the region of the spirit or, rather, the path paved by thinking, this small track of non-time which the activity of thought beats within the time-space of mortal men and into which the trains of thought, of remembrance and anticipation, save whatever they touch from ruin of historical and biographical time. This small non-time-space in the very heart of time, unlike the world and the culture into which we are born, can only be indicated, but cannot be inherited and handed down from the past...” - scrive Hannah Arendt sul tempo che l’uomo ha a disposizione e sul suo significato per l’esistenza umana1. Alle figure di Ugo Giletta sembra mancare proprio questo “small non-time-space”; non hanno un proprio tempo. Non esistono più nella storia, dal momento che non è rimasto nulla che ancora ricordi loro, la loro epoca, i loro avvenimenti, il loro destino. Con loro non sono identificabili ricordi, non ci sono racconti che immortalino il loro passato. Ma non esistono nemmeno nel futuro, perché non sono in grado di portare avanti una propria storia, perché non hanno più una propria volontà, non hanno più idee, perché non realizzano alcun obiettivo, non sanno elaborare un piano che, uscendo dal presente, le porti nel futuro. Non hanno nemmeno un proprio tempo nel nostro presente, perché non sono venute da nessun luogo e non andranno in nessun luogo, perché non sono arrivate nel nostro presente provenendo dalla storia - conservata attraverso la memoria - e non proseguiranno per passare dal nostro presente al futuro, presentato dall’immaginazione e dalla progettazione. La loro povertà triste e sconfortante è dovuta alla mancanza di un tempo proprio.
La mancanza sconfortante, insopportabile, scandalosa del tempo reale nel quale ogni Esistente cerca di determinare la propria posizione concreta, la propria attività concreta, il proprio pensare e agire tra passato e futuro, sembra manifestarsi nelle figure di Ugo Giletta quale condizione oggettiva, immutabile, materiale, nella quale non è individuabile alcuna traccia del proprio tempo. Tale condizione non offre alcuna spiegazione sugli eventi storici, alcun elemento biografico ripercorribile, elementi con cui potrebbe essere ricostruito un destino individuale. Anzi, in questa condizione di mancanza oggettiva e immutabile del tempo reale si oggettivizza qualcosa di insopportabilmente triste, vale a dire la scomparsa del tempo.
Per questo motivo le figure sono tristi, per questo motivo non possiamo guardarle senza compassione, senza empatia dal momento che, nella loro essenza, il lento processo della scomparsa, il processo inarrestabile della perdita, acquista una forma poeticamente potente che può essere colta dai sensi e afferrata con le emozioni. Il processo della scomparsa del tempo rimanda indirettamente alla situazione nella quale si dispone di tempo proprio, cioè il presente di volta in volta presente o, in altre parole, nella quale è possibile costruire da sé la propria esistenza tra storia e futuro, tra memoria e anticipazione, “within the time-space of mortal men”, nella quale si possiede e si determina il proprio tempo. Non avere tempo significa anche non disporre del proprio tempo, del presente. E proprio questo è insopportabile.
La scomparsa del tempo che si oggettivizza nelle figure di Ugo Giletta si riferisce, come detto, indirettamente al possesso del proprio tempo, dove l’attività, la decisione, l’azione e pertanto la storia e quindi tutto quello che è già stato fatto, e il futuro e quindi tutto quello che sarà ancora fatto - immaginandolo, progettandolo e perseguendolo nel presente - crea un processo, un avvenimento storico. Questo avvenimento storico si sviluppa nel tempo, si incarna nel destino individuale, nel tempo biografico del singolo individuo. E proprio questo tempo biografico manca alle figure di Ugo Giletta. Loro sono cadute fuori dalla memoria, non sono arrivate nel presente, non procederanno mai per raggiungere il futuro. La loro essenza è il soggiorno in questa terra di nessuno, senza opportunità di poter cambiare la loro condizione. Non possono fare nulla, sono senza volontà, senza tempo, senza storia, senza futuro. Tuttavia non sono figure astratte, segni neutri che non trasmettono alcuna emozionalità seppure frammentata, ma sono esseri dolorosamente perduti, dimenticati, rovinati. Provocano la nostra immaginazione, la nostra compassione, perfino la nostra curiosità, e il nostro avvicinamento empatico a queste figure richiede un impegno silenzioso ma risoluto a favore della creazione della memoria, a favore del riempimento del vuoto.
Nel quadro del suo progetto, Ugo Giletta espone le sue figure nei locali abbandonati dell’ex istituto psichiatrico, quindi in luoghi una volta animati e pubblici che saprebbero raccontare storie tristi se si fosse in grado di capire il linguaggio delle scale in rovina, delle pareti ammuffite, delle porte di ferro arrugginite, delle finestre frantumate. In questi locali si radunava l’allora comunità dei malati che soffrivano di diversi disturbi mentali. Nella loro incapacità di partecipare attivamente, creativamente e socialmente integrati alla vita del loro presente, in quanto uomini senza presente - ovvero senza la capacità di decidere – lasciano comprendere il proprio tempo. Non avendo ricordi da trasmettere, non avevano una loro storia propria. Tutto quello che era la loro storia, tutto quello che si sapeva di loro, lo hanno raccontato gli altri, non loro stessi. Tutto quello che si è pensato eventualmente del loro futuro, lo hanno immaginato gli altri, non loro stessi. Pertanto era limitato anche il loro presente, essendo presenti solo con una competenza limitata. La scomparsa della possibilità di poter decidere del proprio tempo significa anche: esistere senza storia e senza futuro.
La scelta del luogo per la presentazione delle sue figure corrisponde, dal punto di vista del contenuto, alla sostanziale narratività dei quadri di Ugo Giletta. Si potrebbe affermare - con una piccola esagerazione - che l’artista, con la sua installazione, ha ricordato i dimenticati, i senza storia. Il suo impegno silenzioso per il ripristino della memoria contiene la ricostruzione del presente per coloro che non l’hanno avuto perché, a causa del loro destino, hanno perso il loro passato e il loro futuro, il ricordo e l’anticipazione, il coinvolgimento creativo nella realizzazione del loro tempo.
Anche questa interpretazione sembra valida, anche se può apparire troppo patetica e un po’ didattica. La vera, fondamentale narratività di Ugo Giletta è tuttavia qualcos’altro. Quello che cerca di tematizzare è la prospettiva tragica, pericolosa, inaccettabile, scandalosa di esistere senza storia e senza futuro, quindi senza la possibilità di partecipare alla realizzazione del presente, senza la competenza di una partecipazione attiva al processo storico, quindi senza ricordo e anticipazione. In questo senso, le sue figure sono le figure anticipate, visualizzate attraverso un’immaginazione radicale, della prospettiva - paurosamente reale - di una vita senza tempo.
Loro non sono una ricostruzione dei senza tempo dimenticati che sono vissuti senza storia e futuro, non sono un “in memoriam” dei tanti che hanno vegetato senza alcuna competenza riguardo al proprio tempo, alla propria memoria e alla propria immaginazione, ma piuttosto proiezioni della fantasia radicale, immagini delle inverosimiglianze angoscianti, sconcertanti che, purtroppo, possono anche diventare vere. Le figure di Ugo Giletta possono essere interpretate nel contesto della solidarietà empatica e dell’impegno emozionale per coloro che sono persi, dimenticati, buttati fuori dalla storia, ma in realtà lui va nell’altra direzione. Qui, lui non parla solo del passato - dimenticato -, non mostra soltanto immagini della condizione sconfortante dell’oblio e della scomparsa del tempo, ma piuttosto della possibilità pericolosa, triste, scandalosa dell’essere senza futuro e dell’assenza del processo storico, ovvero della possibilità di vivere sempre senza tempo, senza disposizione del proprio tempo, senza alcuna scelta riguardo alla storia e al futuro.
Hanna Arendt fa una sottile distinzione tra tempo storico e tempo biografico, per quanto la mancanza di tempo riguardi ambedue le sfere. Il tempo biografico - personale, proprio, particolare - concretizza e differenzia l’individuo che deve proiettare le sue azioni nel tempo storico, quindi nel sistema spazio-temporale collettivo, convenzionale, pubblico, nonché metaforico, strutturato, collettivamente interpretato, istituzionale. La scomparsa del tempo biografico ovvero il dimenticare del tempo storico non vogliono dire altro che l’esclusione completa dal processo storico nel quale la soggettività e l’oggettività partecipano, nelle azioni specifiche e nei processi di lavoro, alla realizzazione della storia vera e propria. L’impossibilità di partecipare a questo processo creativo significa assenza di libertà e, allo stesso tempo, il sentirsi persi, buttati fuori, privati di contesto e di comunicazione.
Le figure rovinate di Ugo Giletta trasmettono questa condizione dell’essere senza tempo, dove certe reminiscenze di una propria figura, di un proprio volto, di un proprio destino rimandano al proprio passato. Ma le sue figure sono spaventosamente consumate e usurate dalla storia, tanto da essere irriconoscibili. Quest’usura triste e sconfortante è talmente forte, talmente invadente che non è possibile immaginare per loro un presente, un vero essere nell’adesso, e tanto meno un qualche futuro. Certamente non hanno un futuro, una storia da continuare, ma neanche un passato loro proprio, identificabile, nessun ricordo e assolutamente nessuna anticipazione. Sono semplicemente lì come realtà materiali cui sono inerenti, in qualche maniera e ciononostante, certe allusioni a una caratteristica afferrabile e da tempo dimenticata nonché a una propria storia da tempo sparita e perduta. Ma la loro presenza concreta, fisica, materiale esclude tutto quello che potrebbe includere un qualche futuro, un qualche evento, una qualche storia prevedibile e possibile. La loro condizione silenziosa, concreta e senza tempo sembra esser del tutto definitiva.
In verità, le figure di Ugo Giletta sono ridotte alla testa ovvero al volto di qualcuno. Lui evita ogni elemento aneddotico, ogni ulteriore rimando letterario al luogo e al tempo, a qualcosa di concretamente spaziale, a qualcosa di simbolico, a qualcosa di identificabile in ambito culturale e storico. La decisione di mostrare queste figure nei locali da tempo perduti di un’istituzione pubblica non coinvolge tuttavia storie locali di carattere romantico-nostalgico in grado di tradurre nella forma di un aneddoto particolare e rimpicciolito, limitato e più facile da sopportare, l’insopportabilità fondamentale e contemporaneamente universale, profonda, drammatica della scomparsa del tempo, ovvero della perdita della facoltà di esercitare un diritto sul tempo, della perdita dell’autodeterminazione. Con silenziosa coerenza, l’artista mantiene la sua concentrazione ed essenzialità. Le sue figure si trovano sole e isolate all’interno di uno spazio vuoto plasticamente non definito, metaforicamente non identificabile e non contestualizzabile, dove perfino il vuoto dello spazio non si rivela come esperienza concreta e fisica ma come assenza indifferente, oggettiva, materiale di quel sistema simbolico di segni.
Le sue figure sono realizzate con un minimo di concretizzazione plastica. Non sono ritratti, non sono la rappresentazione di una qualche persona identificabile che, una volta, ha compiuto le sue azioni e ha vissuto la sua vita in questi locali oggi così desolatamente abbandonati. Non parlano più della vita, non hanno una propria storia, solo il vuoto rimanda indirettamente a qualcosa che, nel loro caso, sembra mancare radicalmente e definitivamente: il proprio tempo, la propria storia. La loro estraneità enigmatica e, allo stesso tempo, oggettiva e materiale fa sì che non sia possibile associarle a qualcosa o classificarle in un qualche sistema. Sono semplicemente lì, nella loro oggettività materiale, senza spiegazione riguardo alla loro appartenenza, alla loro provenienza, alla loro storia e alla loro natura. Come l’assenza, nelle figure, di qualsiasi tratto caratteriale fisico e personale, così anche l’assenza di una struttura cromatica contestualizzabile e, per così dire, nota e familiare della loro fisicità, le rende aliene a ogni narrativa. Si trovano lì, senza storie proprie, senza pathos e senza patria. La loro presentazione nei locali una volta animati non è un atto di rianimazione nostalgica del luogo ma piuttosto l’oggettivizzazione di possibili condizioni esistenziali che sono state costruite sulla mancanza di tempo, sulla scomparsa dell’autodeterminazione, sull’impossibilità di trasmettere le proprie storie, e quindi sulla distruzione del presente e sull’oblio del futuro.
1. Da: Hannah Arendt, Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought. Penguin Books, New York, 2006. p. 12.
Silent commitment
The dispiriting lack of time
Personal comments on Ugo Giletta’s figures without a present
“...the imagery I am using here to indicate metaphorically and tentatively the contemporary conditions of thought can be valid only within the realm of mental phenomena. Applied to historical or biographical time, none of these metaphors can possibly make sense because gaps in time do not occur there. Only insofar as he thinks, and that is insofar as he is ageless – a ‘he’ as Kafka so rightly calls him, and not a ‘somebody’ – does man in the full actuality of his concrete being live in this gap of time between past and future. The gap, I suspect, is not a modern phenomenon, it is perhaps not even a historical datum but is coeval with the existence of man on earth. It may well be the region of the spirit or, rather, the path paved by thinking, this small track of non-time which the activity of thought beats within the time-space of mortal men and into which the trains of thought, of remembrance and anticipation, save whatever they touch from ruin of historical and biographical time. This small non-time-space in the very heart of time, unlike the world and the culture into which we are born, can only be indicated, but cannot be inherited and handed down from the past...”
Hannah Arendt writes about the time man has available and its meaning in human life. (1) Ugo Giletta’s figures seem to be lacking precisely this “small non-time-space”; they have no time of their own. They no longer exist in history, since nothing is left that still reminds one of them, their era, their events, their fate. No memories can be identified with them, no stories tell about their past. But they do not even exist in the future, because they are unable to carry on with their own history, because they no longer have their own will, they no longer have any ideas, because they do not accomplish any goal, they are unable to develop a plan that by getting out of the present may bring them into the future. They do not even have their own time in our present because they have come from nowhere and will go nowhere, because they have not come into our present from someplace in history, a history preserved through memory – and will not go through from our present into the future – through imagination and planning. Their sad, dispiriting poverty is the consequence of having no time of their own.
The dispiriting, unbearable, outrageous lack of a real time in which any existing person tries to determine one’s real position, one’s real activity, one’s thinking and acting between the past and the future, a lack that seems to appear in Ugo Giletta’s figures as an objective, unchangeable, material condition in which no trace of one’s time can be found. Such condition offers no explanation about the historical events, no biographical detail that may be re-enacted, no details through which an individual fate might be reconstructed. Actually, in this state of objective and unchangeable lack of a real time, something unbearably sad is objectified, namely the disappearance of time.
That’s why these figures are sad, that’s why we cannot help looking at them with pity, with empathy, since in their substance the slow process of disappearance, the unstoppable process of loss, takes on a sensuously understandable, emotionally graspable, poetically powerful form. The time-disappearing process indirectly recalls the situation in which one has one’s own time, in other words, the present that exists from time to time or in which one can built one’s life by oneself, between history and future, between memory and anticipation, “within the time-space of mortal man”, in which one owns and determines one’s own time. Having no time also means being unable to use one’s own time, the present. And the unbearable think is precisely this.
The disappearance of time that is objectified in Ugo Giletta’s figures refers, as we said, to owning one’s own time, where activity, decision, action and therefore history and all that has already been done, and the future and therefore all that is still to be done – imagining, planning and pursuing it in the present – creates a process, a historical event. Such historical event develops in time, it is embodied in individual fate, in the biographical time of the individual. And it is precisely such biographical time that Ugo Giletta’s figures do not have. They have slipped out of memory, they have not got into the present, they will never move on into the future. Their substance is a stay in this no-man’s land, with no chances to change their condition. They can do nothing, they have no will, no time, no history, no future. However, they are no abstract figures, no neutral signs that convey any emotion, however shattered, they are painfully lost, forgotten, ruined beings. They arouse our imagination, our pity, even our curiosity, and our empathic approach to these figures needs a silent but firm commitment to create memory, to fill the void.
As part of his plan, Ugo Giletta exhibits his figures in the deserted halls of the former psychiatric institute, therefore in places that used to be lively and public, which knew how to tell sad stories if one was able to understand the language of the crumbling stairwells, the mouldy walls, the rusty iron doors, the shattered windows. The then community of the sick who suffered from multiple mental conditions used to gather in these halls. In their inability to participate, as actively, creatively and socially included beings, in the life of their present, as men without a present, that is, without the ability to decide about their own time. Having no memories to hand down, they had no history of their own. All that was their history, all that was known about them, was told by others, not by themselves. All that may have been thought about their future was imagined by others, not by themselves. So their present was limited, since they have limited understanding as long as they lived. The loss of a chance to decide about their own time also means: existing without a history and without a future.
The venue chosen to exhibit his figures matches, in terms of contents, the substantially narrative nature of Ugo Giletta’s paintings. One could state – with some exaggeration – that, with his installation, the artist recalled the forgotten, people without a history. His silent commitment to the reinstatement of memory encompasses the re-enactment of the present for those who have had none, because their fate caused them to lose their past and their future, memory and anticipation, the creative involvement in the accomplishment of their time.
This interpretation too seems to apply even if it sounds a bit too pathetic and slightly pedantic. However, Ugo Giletta’s actual fundamental narrative is something else. What he tries to thematise here is the tragic, dangerous, unacceptable, outrageous prospect of existing without a history and without a future, in other words without a chance to take part in the accomplishment of the present, without the understanding of a proactive participation in the historical process, and so without any memory, without any anticipation. In this respect, his figures are a – fearfully real – preview of the prospect of a timeless life, as seen through radical imagination. They are not a re-enactment of the forgotten, timeless people who lived without a history and without a future, they are not an “in memoriam” of the many people who vegetated without any understanding of their own time, of their own memory and their own imagination, but rather projections of a radical imagination, images of the anguishing, appalling unlikely events which may unfortunately become real. Ugo Giletta’s figures may be construed from the perspective of an emphatic solidarity with and an emotional commitment towards those who are lost, forgotten, thrown out of history, but in fact he goes in the opposite direction. Here, he does not just speak about the – forgotten – past, he does not just show images of the dispiriting condition of oblivion and the disappearance of time, but rather of the dangerous, sad, outrageous possibility of having no future, the lack of a historical process, that is, the possibility of always living without time, without being able to use one’s own time, with no choice about history and the future.
Hanna Arendt makes a subtle distinction between historical time and biographical time, where the lack of time concerns both spheres. Biographical time – personal, one’s own, particular – concretises and differentiates the individual who has to project his actions in the historical time, and therefore in the collective, conventional, public as well as metaphorical, structured, jointly interpreted, institutional spatial-temporal system. The disappearance of biographical time, in other words the oblivion of the historical time, means nothing more than a full exclusion from the historical process, where subjectivity and objectivity are involved, through specific actions and working processes, in the accomplishment of actual history. The inability to take part in such creative process means having no freedom and at the same time feeling lost, thrown out, deprived of context and communication.
Ugo Giletta’s ruined figures convey this timeless condition where some reminiscences of one’s own figure, one’s own face, one’s own fate, recall one’s own past. But his figures are so frightfully worn out, weathered by history that they are unrecognisable. Such sad, dispiriting wear is so strong, so overwhelming that one can hardly imagine a present for them, the actual being in the ‘here and now’, and even less a future of some sort. They certainly do not have a future, a history to continue, but they do not even have an identifiable past of their own. They are simply there, as material realities they are inherent in, somehow and despite some hints at a graspable and long forgotten trait as well as a long-disappeared and long-lost history of their own. But their real, physical, material presence rules out all that could involve some future, some event, some predictable or potential history. Their silent, real, timeless condition seems to be perfectly final.
In fact, Ugo Giletta’s figures are reduced to someone’s head or face. He steers clear of any anecdotical moment, of any further mention of a place or time, of anything concretely spatial, of anything symbolical, of anything culturally and historically identifiable. The decision to show these figures in the long-lost halls of a public institution does not involve, however, some romantic-nostalgic local story that could translate the fundamental as well as universal, deep, dramatic incompatibility of the disappearance of time, or the loss of any understanding about time, the loss of self-determination, into the form of a particular, shrunk, limited and more easily-bearable anecdote. With silent consistency, the artist retains his concentration and essentiality. His figures find themselves alone, secluded within an empty space that is plastically undefined, metaphorically unidentifiable and impossible to contextualise, where even the emptiness of space does not turn out to be a concrete, physical experience but an indifferent, objective, material lack of that symbolic sign system.
His figures are made of minimal plastic concreteness. They are not portraits, they are not the representations of some identifiable person who used to accomplish actions and live a life in these rooms, now so sadly deserted. They no longer speak of life, they have no history of their own, only the emptiness indirectly recalls something that in their case seems to be dramatically, finally missing: their own time, their own history. Because of their enigmatic, as well as objective and material, non-involvement, they cannot be associated with anything, with any system at all. They are simply there, in their material objectivity, with no explanation about their belonging, their origin, their story and their nature. Just like these figures lack any physical or personal personality trait, so the lack of a chromatic structure in their contextualisable and somehow known, familiar physicality makes them alien to any narrative. They are there, with no stories of their own, with no pathos and no home. Exhibiting them in rooms that used to be lively is not a nostalgic revival of a place, but rather the objectification of potential existential conditions that are built on the lack of time, on the disappearance of self-determination, on the inability to convey one’s stories, and therefore on the destruction of the present and the oblivion of the future.
1. Hannah Arendt: Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought Penguin Books, New York, 2006. p. 12.
Stilles Engagement
Der trostlose Mangel an Zeit
Personliche Kommentare zu Ugo Giletta’s Gestalten ohne Jeztzeit
“...the imagery I am using here to indicate metaphorically and tentatively the contemporary conditions of thought can be valid only within the realm of mental phenomena. Applied to historical or biographical time, none of these metaphore can possibly make sense because gaps in time do not occur there. Only insofar as he thinks, and that is insofar as he is ageless – a ‘he’ as Kafka so rightly calls him, and not a ‘somebody’ – does man in the full actuality of his concrete being live in this gap of time between past and future. The gap, I suspect, is not a modern phenomenon, it is perhaps not even a historical datum but is coeval with the existence of man on earth. It may well be the region of the spirit or, rather, the path paved by thinking, this small track of non-time which the activity of thought beats within the time-space of mortal men and into which the trains of thought, of remembrance and anticipation, save whatever they touch from ruin of historical and biographical time. This small non-time-space in the very heart of time, unlike the world and the culture into which we are born, can only be indicated, but cannot be inherited and handed down from the past...” schreibt Hannah Arendt uber die dem Mensch gegebene Zeit und ihre Bedeutung fur die menschliche Existenz.(1) Die Gestalten von Ugo Giletta scheinen gerade dieser “small non-time-space” zu ermangeln; ihnen fehlt die eigene Zeit. Sie existieren nicht mehr in der Geschichte, da es Nichts geblieben ist, was an sie, an ihre Zeit, auf ihre Geschehen, auf ihren Schicksal noch erinnert. Keine Erinnerungen sind identifizierbar mit ihnen, keine Erzahlungen verewigen ihre Vergangenheit. Sie existieren aber auch nicht in der Zukunft, da sie keine eigene Geschichte weiterfuhren konnen, da sie keine eigene Wille, keine Vorstellungen mehr haben, da sie keine Ziele verwirklichen, keine Plane entfalten konnen, die sie aus der Jeztzeit heraus in die Zukunft fuhrt. Sie haben auch keine eigene Zeit in unserer Gegenwart, da sie nirgendwovon gekommen sind und nirgendwo gehen werden, da sie nicht aus der – durch Erinnerung beibehalteten – Geschichte in unsere Jeztzeit angekommen sind, und nicht aus unserer Jeztzeit in die – durch die Imagination und Planung vorgestellte – Zukunft weiterwandern werden. Ihre traurige, trostlose Armut stammt aus dem Mangel an der eigenen Zeit.
Der trostlose, unertragliche, skandalose Mangel an der realen Zeit, in der jeder Existierende seine konkrete Position, seine konkrete Aktivitat, sein Denken und seine Handlung zwischen Vergangenheit und Zukunft zu bestimmen versucht, scheint in den Gestalten von Ugo Giletta als objektiver, unveranderlicher, dinglicher Zustand auf, in dem keine Spuren der eigenen Zeit erfassbar sind. Dieser Zustand gibt keine Erklarung uber die historischen Ereignisse, keine nachvollziehbaren biographischen Elemente, mit denen ein individueller Schicksal rekonstruiert sein konnte. Im Gegenteil, in diesem Zustand des objektiven und unveranderbaren Mangel an der realen Zeit vergegenstandigt sich etwas unertraglich Trauriges, namlich das Verschwinden der Zeit.
Deswegen sind diese Gestalten traurig, deswegen konnen wir sie nicht ohne Mitleid, ohne Empathie betrachten, da es in ihrem Wesen der langsame Prozess des Verschwindens, der unaufhaltbare Prozess des Verlierens eine sinnlich begreifbare, emotionell erfassbare, poetisch kraftvolle Form bekommt. Der Prozess des Verschwindens der Zeit weisst indirekterweise auf die Situation hin, wobei man seine eigene Zeit hat, namlich die jeweilige Jeztzeit, das heisst, wobei man seine Existenz zwischen Geschichte und Zukunft, zwischen Erinnerung und Antizipation, “within the time-space of mortal man” selbst gestalten kann, seine eigene Zeit besitzt und bestimmt. Keine Zeit haben bedeutet auch keine Bestimmung uber die eigene Zeit, uber die Jeztzeit zu haben. Und gerade dies ist unertraglich.
Das Verschwinden der Zeit, welches sich in den Gestalten von Ugo Giletta vergegenstandigt, bezieht sich, wie gesagt, indirekterweise, auf das Besitzen der eigenen Zeit, wobei die Aktivitat, die Entscheidung, die Handlung und deswegen die Geschichte, also alles, was schon gemacht wurde, und die Zukunft, also alles, was noch gemacht wird – und in der Jeztzeit vorgestellt, geplant, angestrebt wird – einen Prozess, ein historisches Geschehen erzeugt. Dieses historisches Geschehen entfaltet sich in der Zeit, verkorpert sich in dem individuellen Schicksal, in der biographischen Zeit der einzelnen Individuums. Und gerade an dieser biographischen Zeit mangeln die Gestalten von Ugo Giletta. Sie sind aus dem Gedachtnis herausgefallen, sie sind nicht in die Gegenwart angekommen, sie werden nie in die Zukunft weiterwandern. Ihr Wesen ist auf diesem Niemandsland aufzuhalten, ohne Chance, ihren Status verandern zu konnen. Sie konnen nichts machen, sie sind willenslos, zeitlos, geschichtslos, zukunftslos. Sie sind trotzdem keine abstrakten Gestalten, keine neutralen Zeichen, welche gar keine, wenn auch fragmentierte, Emotionalitat vermitteln, sondern schmerzhaft verlorene, vergessene, ruinierte Wesen. Sie provozieren unsere Imagination, unser Mitleid, sogar unser Neugier, wobei die empathische Annaherung an diese Gestalten ein stilles, aber festes Engagement fur das Schaffen der Erinnerung, fur das Fullen der Leerheit fordert.
In Rahmen seines Projektes stellt Ugo Giletta seine Gestalten in den verlassenen Raumlichkeiten der ehemaligen psychiatrischen Institut aus, also auf einmal belebten, offentlichen Stellen, welche traurige Geschichten erzahlen konnten, wenn man die Sprache der untergekommenen Treppenhauser, schimmeligen Wanden, verrosteten Eisenturen, zerbrochenen Fenstern verstehen konnte. In diesen Raumlichkeiten versammelte die damalige Gesellschaft die Kranken, die von unterschiedlichen Geistesstorungen gelitten haben. In ihrer Unfahigkeit, in dem Leben ihrer Jeztzeit aktiv, kreativ, sozialisiert teilzunehmen, lassen sie als Menschen ohne Jeztzeit, beziehungsweise ohne Entscheidungsfahigkeit uber ihre eigene Zeit verstehen. Deswegen hatten sie keine eigene Geschichte, da sie keine Erinnerung hatten und weitergeben konnten. Alles, was ihre Geschichte war, alles, was man uber sie gewusst hat, haben nur die Anderen uber sie erzahlt, nicht sie selbst. Alles, was man uber ihre Zukunft eventuell gedacht hat, haben die Anderen vorgestellt, nicht sie selbst. Deswegen war ihre Gegenwart auch limitiert, wobei sie nur mit einer limitierten Kompetenz prasent waren. Das Verschwinden der Moglichkeit, uber die eigene Zeit selbst zu entscheiden, bedeutet auch ohne Geschichte und ohne Zukunft zu existieren.
Die Auswahl des Ortes fur die Prasentation seiner Gestalten korrespondiert inhaltlich mit der grundsatzlichen Narrative der Bilder von Ugo Giletta. Man konnte – mit einer kleinen Ubertreibung – behaupten, dass der Kunstler mit seiner Installation die Vergessenen der Geschichtslosen wieder in Erinnerung ruft. Sein stilles Engagement fur die Wiederherstellung der Erinnerung beinhaltet die Rekonstruktion der Jeztzeit fur denen, die sie nicht gehabt haben, da sie – wegen ihrer Schicksal – ihre Vergangenheit und Zukunft, die Erinnerung und die Antizipation, die kreative Mitgestaltung ihrer eigenen Zeit, verloren haben.
Auch diese Interpretation scheint gultig zu sein, auch wenn es zu pathetisch und ein wenig didaktisch scheinen mag. Die eigentliche, grundsatzliche Narrative von Ugo Giletta ist trotzdem etwas anderes. Was er zu thematisieren versucht, ist die tragische, gefahrliche, unakzeptable, skandalose Perspektive, ohne Geschichte und ohne Zukunft, also ohne Moglichkeit der Mitgestaltung der Jeztzeit, ohne Kompetenz der aktiven Teilnahme an den historischen Prozesses, also ohne Erinnerung und Antizipierung, zu existieren. In diesem Sinne sind seine Gestalten antizipierte, durch die radikale Imagination visualisierte Gestalten einer – beangstigend realen – Perspektive eines Lebens ohne Zeit. Sie sind keine Rekonstruktion der vergessenen Zeitlosen, die ohne Geschichte und Zukunft gelebt haben, sie sind keine “in memoriam” der vielen, die ohne Kompetenz uber ihre eigene Zeit, uber ihre eigene Erinnerung und uber ihre eigene Imagination, Antizipation, Zukunftsvision vegetierten, sondern viel mehr Projektionen der radikalen Phantasie, Bilder der beangstigenden, verwirrenden Unwahrscheinlichkeiten, welche leider einmal wahr sein konnen. Ugo Giletta’s Gestalten lassen sich in dem Kontext der empatischen Solidaritat und des emotionellen Engagement fur die Verlorenen, Vergessenen, aus der Geschichte Herausgeworfenen zu interpretieren, in der Wirklichkeit aber er geht eigentlich in die andere Richtung. Er spricht hier nicht nur uber die – vergessene – Vergangenheit, er zeigt nicht nur Bilder des trostlosen Zustandes der Vergessenheit und des Verschwinden der Zeit, sondern eher uber die gefahrliche, traurige, skandalose Moglichkeit der Zukunftslosigkeit und der Abwesenheit des geschichtlichen Prozesses, beziehungsweise uber die Moglichkeit, immer ohne Zeit, ohne Bestimmung der eigenen Zeit, ohne Entscheidung uber die Geschichte und Zukunft, zu leben.
Hannah Arendt macht eine feine Distanzierung zwischen historischen und biographischen Zeit, wobei der Mangel an der Zeit beide Spheren betrifft. Die biographische – personliche, eigene, partikulare – Zeit konkretisiert und differenziert den Individuum, der seine Handlungen in der historischen Zeit, also in dem kollektiven, konventionellen, offentlichen – und metaphorischen, strukturierten, kollektiv interpretierten, institutionellen – Zeit-Raum-System vorfuhren muss. Das Verschwinden der biographischen Zeit, beziehungsweise das Vergessen der historischen Zeit bedeuten eigentlich eine vollkommene Ausgeworfenheit aus dem geschichtlichen Prozess, in welchem das Subjektive und das Objektive in den spezifischen Handlungen und Arbeitsprozessen die eigentliche Geschichte mitgestalten. Die Unmoglichkeit der Teilnahme in diesem kreativen Prozess bedeutet die Abwesenheit der Freiheit und gleichzeitig die emotionell unertragliche Verlorenheit, Ausgeworfenheit, Kontext- und Kommunikationslosigkeit.
Ugo Giletta’s ruinierte Gestalten vermitteln diesen Zustand der Zeitlosigkeit, wobei gewisse Reminiszensen einer eigenen Gestalt, eines eigenen Gesichts, eines eigenen Schicksals, auf die eigene Vergangenheit hinweisen. Aber seine Figuren sind schrecklich verbraucht und abgenutzt von der Geschichte, dass man sie nicht mehr wiedererkennen kann. Diese traurige, trostlose Abnutzung ist so stark, so aufdringlich, dass man keine Gegenwart, keine wahre Jeztzeit, und noch weniger irgendeine Zukunft fur sie vorstellen kann. Sie haben sicherlich keine Zukunft, keine weiterfuhrbare Geschichte, aber auch keine identifizierbare, eigene Vergangenheit, keine Erinnerung und gar keine Antizipation. Sie sind einfach da, wie sachliche Realitaten, welche irgendwie trotzdem gewisse Andeutungen auf eine mogliche, seit langer Zeit vergessene, erfassbare Eigenschaft und auf eine langst verschwundene, verlorene, eigene Geschichte innehaben. Ihre sachliche, physische, materielle Anwesenheit schliesst aber alles aus, was irgendwelche Zukunft, irgendeines Ereignis, irgendeine vorhersehbare, mogliche Geschichte, einbeziehen konnte. Ihr stiller, sachlicher, zeitloser, Zustand scheint vollkommen definitiv zu sein.
Ugo Giletta’s Gestalten sind eigentlich auf den Kopf, beziehungsweise auf das Gesicht von jemandem reduziert. Er vermeidet jede anekdotischen Momente, jeden additiven literarischen Hinweis auf den Ort und Zeit, auf etwas konkret Räumliches, auf etwas Symbolisches, oder kulturell und geschichtlich Identifizierbares. Die Entscheidung, diese Gestalten in den langst verlorenen Raumlichkeiten eines offentlichen Instituts zu zeigen, involviert trotzdem keine romantisch-nostalgische Lokalgeschichten, welche die universelle, tiefe, dramatische, grundsatzliche Unertraglichkeit des Verschwindens der Zeit, beziehungsweise des Verlorens der Kompetenz uber die Zeit, des Verlorens der Eigenbestimmung, in die Form einer verkleinerten, limitierten, leichter ertragbaren partikularen Anekdote umwandeln konnten. Mit stiller Konsequenz behalt er seine Konzentration und Essentialitat. Seine Gestalten stehen allein und isoliert in einem plastisch undefinierten, metaphorisch unidendifizierbaren und unkontextualisierbaren, leeren Raum, wobei selbst das Leere des Raumes nicht als konkrete, physische Erfahrung, sondern als indifferente, objektive, dingliche Abwesenheit jenes symbolischen Zeichensystems sich offenbart.
Seine Gestalten sind mit dem Minimum der plastischen Konkretisierung gestaltet. Sie sind keine Portraits, keine Darstellung irgendeiner identifizierbaren Person, die einmal in diesen heute so trostlos verlassenen Raumlichkeiten ihre Handlungen gefuhrt hat, ihr Leben gelebt hat. Sie sprechen nicht mehr uber das Leben, sie haben keine eigene Geschichten, nur die Leerheit weisst indirekterweise auf etwas an, was bei ihnen radikal und definitiv zu fehlen scheint: auf die eigene Zeit, auf die eigene Geschichte. Ihre enigmatische und gleichzeitig objektive, zustandsartige Fremdheit lässt sie nirgendwohin einordnen, oder in irgendeinem System klassifizieren. Sie sind einfach da, in ihrer dinglichen Objektivität, ohne Erklärung über ihre Zugehörigkeit, über ihre Abstammung, über ihre Geschichte oder über ihr Wesen. Wie die Abwesenheit der psychischen, persönlichen Karakterzüge der Gestalten, ebenso die Abwesenheit der kontextualisierbaren, sozusagen bekannten, familiären Farbstruktur ihrer Körperlichkeit verfremden sie von jeglichen Narrativen. Sie stehen da, ohne eigener Geschichten, pathoslos und heimatlos. Ihre Prasentation in den einmal belebten Raumen ist kein Akt einer nostalgischen Wiederbelebung des Ortes, sondern viel mehr Vergegenstendigung moglicher existenziellen Zustanden, welche sich auf dem Mangel der Zeit, auf das Verschwinden der Selbstbestimmung, auf die Verunmoglichung des Weitergebens der eigenen Geschichten, also auf die Vernichtung der Gegenwart und auf das Vergessen der Zukunft aufgebaut wurden.
1. Hannah Arendt: Between Past and Future. Eight Exercises in Political Thought Penguin Books, New York, 2006. p. 12.
Catalogo della mostra. 2013
Experience of Empathy, Accenni metaforici alla fragilità/Metaphorical Suggestions of Fragility - Il Fondaco, Bra (CN) (Italy)
EXPERIENCE OF EMPATHY
Accenni metaforici alla fragilità
Yves Bresson, Ugo Giletta, Denica Lehocka
Lóránd Hegyi
“It is said: the unity of being, at any moment, would consist
simply in the fact that man, in the penetrability of cultures,
understand one another.“
(Emmanuel Levinas: Philosophy, Justice and Love)
La percezione empatica della mancanza di protezione, della fragilità, dell’impossibilità di difesa sostanziali, illimitate e innegabili, dell’essere umano ai giorni nostri nei lavori di certi artisti si associa alla ricerca delle micro-narrazioni tutt’ora rilevanti e legittime, in cui, nonostante la dolorosa frammentazione e il disorientamento delle nostre azioni quotidiane e delle loro comunicazioni mentali, la sottile entità dell’Essere può ancora apparire, anche se solo in modo provvisorio, anche se solo per un attimo o solo nel breve momento di un incontro con qualcosa di essenziale. Tali momenti enigmatici e bizzarri sono allo stesso tempo catartici e meditativi; ci donano una certa speranza limitata e allo stesso tempo una disperazione melanconica, poiché ogni volta dimostrano la nostra fragilità irrevocabile.
Dobbiamo sopportare questa realtà ambivalente, poiché presenta qualcosa di sostanzialmente vero, di realmente presente, ma nello stesso tempo sfida la nostra resistenza al vuoto, al nulla, alla disintegrazione fatale e desolante della nostra entità umana. Pertanto la percezione rappresenta anche qualcosa di stimolante, attivo e creativo poiché essa anima la ricerca di nuovi legami e di possibili costellazioni umane di rilievo.
Tale resistenza è priva di pathos, silente, tenace, modesta: non agisce con gesti spettacolari, eroici. Si evolve nella condizione di fragilità. Questa fragilità sembra essere qualcosa di essenziale, qualcosa di sostanziale, perché porta in sé la possibilità di apertura all’Altro, la necessità del dialogo con il prossimo, la percezione di altre realtà, la generazione di nuovi, sottili legami. La comprensione empatica dell’Altro significa nello stesso tempo la comprensione della propria competenza per il dialogo, per la propria responsabilità nei confronti dell’Altro. La perdita di una qualsiasi protezione o la perdita della possibilità e della credibilità di qualsiasi dichiarazione, trasparenza e orientamento – esteriori, astratti, gerarchici - ci conduce all’Altro, al prossimo, al dialogo e all’empatia della realtà dell’Altro. Questo è quello che Emmanuel Levinas chiama penetrability of cultures.(1)
Attraverso la percezione della propria fragilità e della mancanza di difesa si percepiscono le realtà e le entità dell’Altro, poiché avviene una congiunzione, una partecipazione alla cultura dell’Altro, una dolce fusione empatica nelle realtà del prossimo. L’efficacia metaforica delle sottili e sensitive micro-narrazioni delle esperienze empatiche riguarda il vissuto di questa dolce congiunzione dell’uno con l’Altro, riguarda il vissuto della penetrazione negli ambiti dell’Altro, dissolvendo i rigidi confini esistenti nei vari ambiti della vita. L’incontro con l’Altro è percepito come un’esperienza propria; il volto dell’Altro diventa lo specchio del proprio volto, la contemplazione del prossimo diventa la percezione del proprio Sé.
Questa immediata, naturale ed empatica fusione di esperienze che si realizza nei piccoli, delicati e intimi incontri crea delle sottili micro-narrazioni, le quali non trasmettono delle dichiarazioni universali – e perciò astratte – ma delle situazioni antropologiche immanenti e delle costellazioni di legami sottili. Qui si sviluppa una sensibilità sottointesa, una franchezza sensibile, empatica, in cui la penetrabilità reciproca crea le sue narrazioni di fragilità.
Questa fragilità, come detto, contiene l’empatia e la speranza e porta la possibilità dell’incontro con l’Altro, senza legittimazioni provenienti dall’esterno tramite dichiarazioni universali, astratte. Jean-François Lyotard parla della crisi dell’universalità e della totalità, ovvero della conseguente perdita di legittimazione degli intellettuali moderni, che hanno agito a nome di un “soggetto universale”. “Il declino e forse anche il crollo dell’idea dell’universalità può liberare il pensiero e la vita dall’ossessione della totalità. La molteplicità delle responsabilità, la loro reciproca indipendenza o addirittura la loro insostenibilità obbligano quelli che le assumono, siano esse grandi o piccole, a un atteggiamento morbido, tollerante e agile. Tali caratteristiche non saranno più i contrari di severità, sincerità e forza, ma saranno le loro connotazioni.” (2) Proprio questa “morbidezza, tolleranza e agilità”, questa sottigliezza, modestia e franchezza, questa dolce, sensibile ed empatica fusione appaiono nelle micro-narrazioni di alcuni artisti, e la tolleranza, l’empatia, la partecipazione e la penetrability of cultures diventano un momento centrale nella pratica artistica.
Lyotard esprime in modo chiaro e preciso che “la morbidezza e la tolleranza”, l’empatia e la modestia non sono per niente dei segni di debolezza, ma –al contrario- sono la manifestazione della complessità antropologica e della rilevanza etica, solidale, emozionale e umana. La comprensione empatica e tollerante dell’Altro, ovvero la ricerca della possibilità di un’incontro vero e intimo con l’Altro, la percezione dell’Altro quale parte del proprio Sé, racchiude la responsabilità nei confronti dell’Altro come parte integrante fondamentale dell’umano così com’è stato formulato da Emmanuel Levinas nel contesto etico: “The only absolute value is the human possibility of giving the other priority over oneself.”(3). Questa disponibilità a incontrare l’Altro e comprendere così in modo diverso il proprio Sé conduce l’artista alla ricerca di momenti e situazioni in cui la condizione di una percezione vera, profonda ed empatica riveli l’unità dell’Essere.
Questi momenti enigmatici, sensibili collegano l’elemento fragile, labile, fugace, apparentemente non essenziale, all’accenno dell’essenziale, del sostanziale, del fondamentale, i quali si lasciano comprendere attraverso la nostra empatia nelle manifestazioni apparentemente insignificanti e frammentate. Gli accenni metaforici di queste micro-narrazioni si riferiscono alla percezione di questi incontri rari, enigmatici con l’Altro, quale parte del proprio Sé, quale esperienza di un legame profondo, latente tra l’immediato, l’individuale e le prospettive più ampie e intelligibili del nostro fondamentale orientamento umano.
Le creazioni di Yves Bresson, che sono bizzarre, enigmatiche, affascinanti, ambivalenti e suggestive, che appaiano come qualcosa di conosciuto, familiare e nello stesso tempo sconosciuto e inquietante, evocano la presenza di qualcosa di sostanzialmente importante, arcaico e fondamentale. Compaiono come un volto, qualcosa come la nostra immagine riflessa, che ci permette di confrontarci immediatamente e radicalmente con la nostra stessa figura, di vederci e percepirci nell’immagine dell’Altro. In questo volto estraneo e al contempo conosciuto appare l’Altro, o l’affinità che collega il nostro sé all’Altro. Contemplando l’Altro riconosciamo noi stessi, ma nello stesso momento anche il prossimo dentro di noi. Il riconoscimento del legame, dell’affinità, dell’unità dell’esistenza, nonostante e tramite la varietà e diversità, conferisce a questo particolare momento della rivelazione dell’essenziale una perfezione meditativa, anche se questa è solo provvisoria e limitata. Si ha la sensazione che qui sia stato comunicato qualcosa di sostanziale, che qui si tratti di un luogo di rivelazione. Questa catarsi silente non necessita di gesti teatrali, si esprime nell’intensità della sensazione del processo di percezione e partecipazione. Il luogo particolare della rivelazione prende la forma del volto, il volto del Sé e nello stesso tempo dell’Altro.
Yves Bresson lavora con immagini della natura, enigmatiche, ma allo stesso tempo comuni, come ad es. rocce, pietre, terra o sabbia del deserto, macchie d’acqua sulla strada, immagini trovate che evocano immagini del volto dell’Altro, dello straniero, del prossimo. Spesso il luogo vuoto assume un significato pressoché magico, ma in ogni caso un’entità rituale, meditativa, in cui qualcosa è successo o succederà. L’approccio alle piccole sfumature, apparentemente insignificanti, alle piccole trasformazioni che rimangono pressoché inosservate, apre la strada per un ripensamento di tutta la narrazione della fragilità. Dalle assolutamente piccole e fragili micro-costellazioni si sviluppa l’immagine di un volto, che ci collega all’immagine dell’Altro, dello straniero, del prossimo ovvero di un archetipo dell’uomo.
Il volto del Sé che appare nelle varie forme dell’Altro, che si riconosce sempre nel volto dell’Altro, costituisce la narrativa fondamentale di Ugo Giletta, in cui l’enigmaticità dell’identificazione con l’Altro crea una forte intensità emozionale. Ugo Giletta lavora con coerenza e quasi esclusivamente con il volto umano, con un arcaico e al contempo inquietante archetipo sensuale dell’uomo. Le sue figure non sono ritratti, non sono rappresentazioni di determinate persone identificabili. Sono impersonali ed estranee, reali e mute. La loro estraneità enigmatica non si lascia catalogare da nessuna parte né classificare in nessun sistema. Sono semplicemente lì, nella loro reale oggettività, senza dichiarazioni sulla propria appartenenza, sulla propria provenienza, sulla propria storia o sul proprio essere. La mancanza di tratti caratteristici, personali, psichici della loro fisicità estranea tali figure da qualsiasi narrazione aneddotica. Loro stanno lì, senza una storia propria, individuale, senza pathos, senza patria, desolate.
I toni grigio-blu e terra suggeriscono qualcosa di arcaico e lontano, qualcosa di estraneo e reale, scultoreo, anche se i corpi sono riscaldati da una sensualità latente, ma forte e irresistibile. Sono esseri viventi senza personificazioni, senza storia individuale, senza identificazione, senza esistenza tangibile. Questo apparente antagonismo rafforza l’ambivalenza poeticamente determinante, sostanziale e indissolubile di tali figure: da una parte ci troviamo di fronte a qualcosa di primordiale, concreto, chiuso, compatto, denso, semplice e universale che attiva delle connotazioni di rappresentazioni archetipiche del volto umano quale unico, forte, rilevante e fondamentale riferimento dell’orientamento mentale, come l’immagine universale, che ha perso definitivamente la sua legittimità universale. Dall’altra parte le figure assumono certi momenti diretti e psichicamente percettibili, particolari e specifici dell’esistenza sensuale, vale a dire che iniziano a esistere come qualcosa di particolarmente e provocatoriamente esigente, forte, vitale, sovrano e inconfondibile, anche se non sono persone concrete, non sono partner. Esse hanno il loro posto nel mondo, riempiono lo spazio vuoto, sono presenti, ma il loro silenzio enigmatico, la loro intangibile, solida realtà priva di contesto le fanno diventare degli estranei. Questa tragica e reale estraneità deriva proprio dalla perdita della legittimità universale. Il volto sta lì, vuoto e isolato, definitivamente esposto al nulla perché nessun riferimento universale legittima il suo stato. L’immagine universale è diventata una maschera del vuoto.
Anche se queste figure enigmatiche sono state collocate in modo silenzioso, immobile e senza volontà in uno spazio vuoto, indefinito, anche se suggeriscono una certa atemporalità e una reale indifferenza, esse contengono comunque una celata tensione interiore, una strana energia latente, dalla quale sembrano essere dominate. Come in un eterno stato d’attesa si trovano in un non-luogo, in un vuoto indefinibile, dove da un momento all’altro potrebbe verificarsi una trasformazione, un essenziale mutamento traumatico del loro stato, un rovesciamento radicale del loro essere e della loro storia. Proprio questa inquietante ambivalenza rende queste figure così suggestive e interessanti, proprio questa potenzialità latente di una vera storia le rende così importanti per noi: portano dentro di sé un messaggio, hanno un’essenziale importanza per l’osservatore, suggeriscono la propria capacità di poter trasmettere qualcosa di fondamentale nonostante la loro realtà indifferente e immobile, nonostante il loro silenzio. Tale silenzio enigmatico, reale custodisce in sé qualcosa di primordiale, arcaico, qualcosa che ricorda le grandi esperienze collettive.
Le piccole narrazioni di Denica Lehocka non hanno la pretesa di voler rappresentare delle Weltanschauungen astratte, universalistiche e monolitiche; non raffigurano delle costruzioni teleologiche della necessità fatalistica, ma tematizzano legami immediati, complessi, fragili, intimi, e costellazioni empatiche, in cui la partecipazione alle realtà dell’Altro, lo sviluppo di possibili nuovi legami concreti all’interno della micro-comunicazione provvisoria creano una densa, ricca, aperta e sottile narrazione. Le sue piccole narrazioni sono caratterizzate da fragilità anziché forza, empatia spontanea anziché determinismo, sottigliezza anziché necessità teleologiche. Esse riflettono avvenimenti pressoché impercettibili, trasformazioni bizzarre di oggetti che diventano forme vitali, simile a vegetali, o forme fisiche, la continua trasformazione di alcune figure, i cui intrecci e fusioni provvisori creano unità e armonie fragili, fugaci e poetiche. Questa armonia provvisoria è labile e sottile, ma presenta comunque una certa coerenza nuova, emozionale ed empatica, quindi un orientamento celato, il quale si mobilita contro la disintegrazione e l’indifferenza.
Nei suoi disegni e nelle sue installazioni Denica Lehocka cerca di creare delle costellazioni sottili, poetiche ed evocative, nelle quali i motivi e i segni connessi tra di loro, i riferimenti stratificati uno sull’altro nei diversi ambiti della vita, gli oggetti della vita quotidiana e della natura, i frammenti dei sistemi organici e degli artefatti oggettivi e reali suggeriscono una nuova coerenza vitale ed emozionale dell’esistenza. Le micro-organizzazioni e le micro-abitazioni così create manifestano qualche possibile strutturazione di esperienze diverse, di ambiti di vita, di sistemi di segni e attitudini, che si presentano in questo modo in una intima, vitale, sensata, vivibile – anche se provvisoria, limitata e fragile - perfezione dell’esistenza. I componimenti poetici, enigmatici ed evocativi di Denica Lehocka accennano ad avvenimenti latenti, intimi e sottili, che danno una diversa interpretazione alla frammentazione desolata e senza orientamento delle nostre reali azioni quotidiane e attivano le nostre capacità emozionali verso un’empatia attiva.
Nonostante la loro fragilità, o proprio per quella, queste micro-costellazioni poetiche, sottili, provvisorie, effimere, enigmatiche riescono a dimostrare una resistenza latente, silente, priva di pathos, modesta nei confronti del disorientamento fatale e della indifferenza. Proprio nelle micro-organizzazioni fragili, nelle costellazioni antigerarchiche, empatiche e poetiche appaiono gli aspetti di una coerenza umana, la quale sembra ancora in grado di mettere in collegamento tra di loro gli oggetti frammentati, estraniati, logori e manipolati e di creare in questo modo dei contesti nuovi empatici e vitali, rilevanze umane perdute, relazioni emozionali immediate. Tali micro-costellazioni provvisorie, fragili, antigerarchiche, spontaneamente autostrutturanti, organiche, apparentemente volontarie ed effimere sono i rari ambiti dell’empatia, nei quali è ancora possibile dare una certa coerenza alle nostre azioni. Con la sua modestia Denica Lehocka ci mostra vie nascoste e latenti dell’esperienza empatica.
(Roma, Febbraio 2013)
Note:
1. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illionis Press, Urbana and Chicago 2006. p. 23.
2. Jean-François Lyotard: Grabmal des Intellektuellen Edition Passagen, Graz – Wien 1985. p.18.
3. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illionis Press, Urbana and Chicago 2006. p. 22.
Experience of Empathy
Metaphorical Suggestions of Fragility
Yves Bresson, Ugo Giletta, Denica Lehocka
Lóránd Hegyi
“It is said: the unity of being, at any moment, would consist simply in the fact that men, in the penetrability of cultures, understand one another.”
(Emmanuel Levinas: Philosophy, Justice and Love)
The empathetic perception of the fundamental, unlimited and undeniable vulnerability, fragility and defenselessness of present-day humanity is combined in the work of certain artists with the quest for micro-narratives that remain legitimate and relevant, and allow the subtle, fragile unity of being to appear – if only temporarily, just for a moment, for the instant of an encounter with something essential – despite the painful fragmentation and disorientation of our everyday actions and their mental manifestations. Such enigmatic, peculiar moments are both cathartic and meditative; they impart both a kind of limited hope and a melancholic hopelessness, as they are proof, time and again, our irreversible fragility.
We have to endure this ambivalent reality, which – while demonstrating a fundamental truth and factual presence – also provokes our resistance to the void, to nothingness, to the ominous and bleak disintegration of our human entity. Seen as such, this perception is also motivating, activating and creative, as it incites us to search for new connections and potential, relevant human constellations.
Such resistance is not dramatic, but quiet, persistent and unpretentious; it does not employ spectacular, heroic gestures, but emerges from a state of fragility. In this context, fragility appears to be essential and fundamental, as it implies the potential for openness to others, the need for dialog with our neighbors, awareness of other realities, and the emergence of new, subtle connections. Empathetically understanding the other also means understanding your own competence for dialog, and your responsibility for others. Losing all protection, or losing the possibility and credibility of any external, abstract or hierarchical explanation, transparency or orientation, leads us to the other, to our neighbor, to dialog and to empathy with the realities of others. This is what Emmanuel Levinas calls the “penetrability of cultures”. (1)
Through awareness of our own fragility and vulnerability, we perceive the realities and entities of others as we each see things from the other’s perspective, share in one another’s culture, and gently, empathetically merge into the realities of our neighbors. The metaphorical effectiveness of the subtle, sensitive micro-narratives of the experience of empathy is based on this experience of gently merging with the other: the experience of penetrating the realms of others, during which the rigid boundaries of various realms of life dissolve. We perceive encounters with others as our own experience; the other’s face becomes a mirror to our own face; looking at our neighbor becomes awareness of our self.
Such direct, natural and empathetic merging of experiences, which plays out in small, concrete, familiar and gentle encounters, shapes subtle micro-narratives that communicate not universal – and as such abstract – declarations, but inherent anthropological situations and constellations of subtle connections. Thus, a self-evident sensitivity develops, a sensitive, empathetic openness, and mutual penetrability shapes its narratives of fragility.
Such fragility, then, implies empathy and hope, and holds the potential of encounters with others without external legitimation by universal, abstract declarations. Jean-François Lyotard speaks of a crisis of universality and totality, and of the related loss of legitimacy of modern intellectuals who used to act on behalf of a “universal subject”. “The decline, perhaps the ruin, of the universal idea can free thought and life from totalizing obsessions. The multiplicity of responsibilities, and their independence (their incompatibility), oblige and will oblige those who take on those responsibilities, small or great, to be flexible, tolerant, and svelte. These qualities will cease to be the contrary of rigor, honesty, and force; they will be their signs.” (2) The micro-narratives of certain artists exhibit precisely that “flexible, tolerant, and svelte” nature: subtleness, humility and openness, merging gently, sensitively and empathetically; tolerance, empathy, participation and “penetrability of cultures” become the central elements of artistic practice.
Lyotard makes it very clear and plain that flexibility and tolerance, empathy and humility are not signs of weakness but, quite to the contrary, a manifestation of anthropological complexity and ethical, emotional, human solidarity and relevance. Empathetic, tolerant understanding of others, the search for opportunities for true, familiar encounters with others, and the perception of others as a part of ourselves imply responsibility for others as an essential element of humanity. As Emmanuel Levinas put it in the ethical context, “the only absolute value is the human possibility of giving the other priority over oneself.” (3) This willingness to encounter others, and through such encounters come to a different understanding of the self, leads artists to search for moments and situations in which a state of genuine, profound, empathetic awareness reveals the unity of being.
Such enigmatic, sensitive moments connect fragile, delicate, ephemeral, ostensibly unessential things with a suggestion that they are essential, substantial and fundamental, which our empathy allows us to grasp in seemingly insignificant, fragmented manifestations. The metaphorical suggestions of such micro-narratives are based on the perception of rare, enigmatic encounters with the other as part of the self, as an experience of potential, profound connection between what is immediate and personal, and the broader, intelligible perspectives of our fundamental human orientation.
Yves Bresson’s peculiar, enigmatic formations appear both comfortably familiar, and at the same time disconcertingly strange and dauntingly unfamiliar; enchanted, ambivalent and suggestive, they evoke the presence of something fundamentally important, archaic and essential. They appear as faces, as something akin to our mirror image that enables us to directly and radically explore our own form, to see and experience ourselves in the image of another. The other, or rather the shared experience that connects the self to the other, manifests in a face that is equal parts unfamiliar and familiar. Contemplation of the other becomes self-awareness, but in that same moment awareness of the other in ourselves. The perception of what connects us, what we share, of the unity of being despite, or rather through variety and diversity lends a meditative integrity to that special moment of revelation of what is essential, even if only temporarily and within limits. The impression arises that something fundamental has been communicated here, that we are in a place of revelation. This quiet catharsis requires no dramatic gestures; it is expressed in the emotional intensity of the process of perception and participation. The special place of revelation takes on the form of a face, the face of the self and at the same time of the other.
Yves Bresson works with enigmatic, but at the same time mundane formations in nature, such as boulders, rocks, earth, or the sand of the desert, water stains on roads: found images that evoke the face of the other, the stranger, the neighbor. Often, an empty place takes on an almost magical significance; in any case, it is a meditative, ritual entity where something has taken place, or will take place. Drawing closer to small, seemingly insignificant nuances, to almost unremarked, slight transformations opens the path for rethinking entire narratives of fragility. The image of a face that connects us to the other, the stranger, the neighbor, and to the archetype of humanity, unfolds from quite small and fragile micro-constellations.
The face of the self as it appears in the various forms of the other, and constantly recognizes itself in the face of the other, shapes the fundamental narratives in Ugo Giletta’s work, in which the enigmatic quality of identification with the other creates great emotional intensity. Ugo Giletta works consistently and almost exclusively with the human face, with the archaic and yet disconcertingly sensual archetype of humanity. His figures are not portraits; they do not depict any particular, identifiable persons. They are impersonal and alien, physical and silent. Their enigmatic strangeness defies all classification, transcends all systems of order. They are simply there, in their objective physicality, with no declaration of affiliation, origin, history or nature. The absence of psychological, personal characteristics in their physicality alienates these figures from any anecdotal narratives. They are simply there, with no personal narratives of their own, without pathos, homeless and desolate.
Gray-blue and earth tones suggest an archaic and remote quality, something alien and physical, a sculptural quality, even though their bodies are warmed by a latent, yet strong and irresistible sensuality. They are living beings, not personified, without private histories, with no identification or concrete existence. This apparent antagonism enhances the poetically determinant, fundamental and irresolvable ambivalence of these figures: we are faced with something ancient, solid, cohesive and compact that is dense, simple and general, and activates connotations of archetypal depictions of the human face as its sole powerful, relevant basic reference for mental orientation, like the universal imago that has lost its universal legitimacy once and for all. Yet these figures are given certain immediately and psychologically perceptible, particular and specific moments of sensual existence: they begin to exist as something extremely, provocatively challenging and forceful; they are lively, commanding and distinctive even though they are neither specific persons, nor partners. They assume their place in the world and fill empty space; they are present, but their enigmatic silence, their inviolable, solid physicality devoid of context makes them alien. Their tragic, material otherness emerges precisely from the loss of universal legitimacy. The face exists empty and alone, its definition at the mercy of nothingness, as no universal references legitimate its status. The universal imago has become a mask of emptiness.
Although these enigmatic figures are set in empty, undefined space, silent, unmoving and without volition, and although they suggest a certain timelessness and material indifference, they nevertheless embody a hidden inner tension and a peculiar latent energy that seem to dominate them. They stand in a non-place, an undefined emptiness, as if in an eternal waiting state, and a transformative event, a fundamental, dramatic change in their status, a radical revaluation of their nature and their history may occur at any moment. It is precisely this disconcerting ambivalence that makes the figures so suggestive and interesting – this latent potentiality of a genuine history makes them so important to us: they bear a message and are of fundamental significance for the beholder; they suggest an ability to communicate something essential despite their indifferent, unmoving physicality and their silence. Their enigmatic, material silence carries something ancient and archaic, reminiscent of our great, shared experiences.
Denica Lehocka’s subtle, small narratives make no claim to abstract, universalistic or monolithic worldviews; they are not teleological constructions of fatalistic necessity. Instead, they address intimate, fragile, complex and direct connections and empathetic constellations, where participation in the realities of others and the development of potential new, specific connections within temporary micro-communication create dense, rich, open and subtle narratives. Her small narratives are determined by fragility rather than strength, by spontaneous empathy instead of determinism, and by subtlety in place of teleological requirements. They reflect almost imperceptible, intimate happenings, strange transformations of objects into animate, plant-like or corporeal forms, constant permutations of figures whose temporary interlinking and merging gives rise to a fragile, ephemeral and poetic unity and harmony. Though fragile and subtle, this temporary harmony manifests a kind of new emotional and empathetic coherence, or a hidden orientation that mobilizes against disintegration and indifference.
In her drawings and installations, Denica Lehocka seeks to shape subtle, poetic and evocative constellations in which interconnected motifs and signs, layered references to various spheres of life, objects of everyday life and elements of nature, fragments of organic systems and material, physical artifacts suggest a new, lively and emotional coherence of being. The micro-organizations and micro-habitations thus created manifest a sort of potential structure for diverse experiences, spheres of life, semiotic systems and attitudes so as to exhibit an intimate, lively, meaningful integrity of being to be experienced, though it is temporary, limited and fragile. Denica Lehocka’s poetic, enigmatic and evocative assemblages suggest latent, intimate and subtle happenings that reinterpret the bleak, disoriented fragmentation of our everyday material actions and activate our emotional capacities to enable active empathy.
Despite their fragility, or perhaps precisely as its consequence, these poetic, subtle and enigmatic micro-constellations, temporary and ephemeral though they may be, are capable of indicating potential quiet, unspectacular and unpretentious resistance to destructive disorientation and indifference. Perspectives of human coherence appear precisely in those fragile micro-organizations, in anti-hierarchical, empathetic and poetic constellations, and such coherence seems to have retained its ability to create connection between fragmented, alienated, battered and manipulated things, thus giving rise to new empathetic and lively relationships, a human relevance thought to be lost, and direct emotional connection. Though temporary and fragile, seemingly arbitrary and ephemeral, these anti-hierarchical, spontaneously self-organizing, organic micro-constellations are the rare realms of empathy where it is still possible to endow our actions with some coherence. Without any pretense, Denica Lehocka shows us hidden, potential paths towards the experience of empathy.
(Rome, February 2013)
Footnotes:
1. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2006, p. 23.
2. Jean-François Lyotard: Tomb of the Intellectual. In: Political Writings. University of Minnesota Press 1993, p. 7.
3. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illinois Press, Urbana and Chicago 2006, p. 22.
EXPERIENCE OF EMPATHY
Metaphorische Andeutungen der Fragilität
Yves Bresson, Ugo Giletta, Denisa Lehocká
Lóránd Hegyi
“It is said: the unity of being, at any moment, would consist
simply in the fact that man, in the penetrability of cultures,
understand one another.“
(Emmanuel Levinas: Philosophy, Justice and Love)
Die empathische Wahrnehmung der grundsätzlichen, unbegrenzten, unleugbaren Schutzlosigkeit, Zerbrechlichkeit und Wehrlosigkeit des Humanen in unseren Tagen verbindet sich in der Arbeit gewisser Künstler mit der Suche nach den noch legitimen, noch relevanten Mikronarrativen, in denen die subtile, fragile Einheit des Seins trotz der schmerzhaften Fragmentierung und Desorientierung unserer täglichen Handlungen und deren mentaler Vermittlungen, wenn auch nur provisorisch, wenn auch nur für einen Augenblick, nur im kurzen Moment der Begegnung mit etwas Essentiellem aufscheinen darf. Diese enigmatischen, seltsamen Momente sind gleichzeitig kathartisch und meditativ; sie geben uns gleichzeitig eine gewisse begrenzte Hoffnung und eine melancholische Hoffnungslosigkeit, da sie jedes Mal unsere unwiderrufliche Fragilität beweisen.
Wir müssen diese ambivalente Realität ertragen, da sie etwas grundsätzlich Wahres, sachlich Anwesendes aufweist, aber gleichzeitig unseren Widerstand gegen das Leere, gegen das Nichts, gegen die fatale und trostlose Desintegration unserer humanen Entität herausfordert. In diesem Sinne ist diese Wahrnehmung auch etwas Motivierendes, Aktives, Kreatives, da sie zur Suche nach neuen Verbindungen und möglichen, relevanten humanen Konstellationen animiert.
Dieser Widerstand ist pathoslos, still, ausdauernd, bescheiden; er operiert mit keinen spektakulären, heroischen Gesten. Er entfaltet sich im Zustand der Fragilität. Diese scheint etwas Essentielles, etwas Wesentliches zu sein, da sie die Möglichkeit der Öffnung für das Andere, die Notwendigkeit des Dialogs mit dem Nachbarn, die Wahrnehmung anderer Realitäten, die Entstehung neuer, subtiler Verbindungen innehat. Das empathische Verstehen des Anderen bedeutet gleichzeitig das Verstehen der eigenen Kompetenz für den Dialog, die eigene Verantwortung für den Anderen. Der Verlust jeglichen Schutzes, beziehungsweise der Verlust der Möglichkeit und Glaubwürdigkeit jeweiliger – äußerer, abstrakter, hierarchischer – Erklärung, Transparenz und Orientierung führt uns zu dem Anderen, zu dem Nachbarn, zum Dialog und zur Einfühlung in die Realitäten des Anderen. Dies ist, was Emmanuel Levinas penetrability of cultures nennt.(1)
Durch die Wahrnehmung der eigenen Fragilität und Schutzlosigkeit werden die Realitäten und Entitäten des Anderen wahrgenommen, da ein Sich-Ineinander-Versetzen, eine Teilnahme an der Kultur des Anderen, ein sanftes, empathisches Einschmelzen in die Realitäten des Nachbarn geschieht. Die metaphorische Wirksamkeit der subtilen, sensitiven Mikro-Narrativen der Erfahrungen der Empathie bezieht sich auf das Erlebnis dieses sanften Ineinander-Schmelzens, auf das Erlebnis des Penetrierens in die Bereiche des Anderen, wobei sich die rigiden Grenzen diverser Lebensbereiche auflösen. Die Begegnung mit dem Anderen wird als eigenes Erlebnis wahrgenommen; das Gesicht des Anderen wird zum Spiegel des eigenen Gesichts; der Anblick des Nachbarn wird zur Wahrnehmung des Selbst.
Dieses unmittelbare, natürliche, empathische, in den kleinen, konkreten, intimen, sanften Begegnungen sich realisierende Ineinander-Schmelzen der Erfahrungen gestaltet subtile Mikro-Narrativen, welche keine universellen – und deswegen abstrakten – Erklärungen, sondern immanente anthropologische Situationen und Konstellationen der subtilen Verbindungen vermitteln. Hier entfaltet sich eine selbstverständliche Sensibilität, eine empfindsame, empathische Offenheit, wobei die gegenseitige Penetrabilität ihre Narrativen der Fragilität gestaltet.
Diese Fragilität beinhaltet , wie gesagt, Empathie und Hoffnung und trägt die Möglichkeit der Begegnung mit dem Anderen, ohne äußere Legitimationen durch universelle, abstrakte Erklärungen, in sich. Jean-François Lyotard spricht über die Krise der Universalität und Totalität, beziehungsweise über den damit verbundenen Legitimitätsverlust des modernen Intellektuellen, der im Namen eines „universellen Subjekts“ agiert hat. „Der Untergang, und vielleicht sogar Zerfall, der Idee der Universalität kann das Denken und das Leben von der Obsession der Totalität befreien. Die Vielheit der Verantwortlichkeiten, ihre wechselseitige Unabhängigkeit oder gar Unverträglichkeit, verpflichten diejenigen, die sie, ob groß oder klein, übernehmen werden, zu Geschmeidigkeit, Toleranz und Wendigkeit. Diese Eigenschaften werden nicht länger das Gegenteil von Strenge, Aufrichtigkeit und Kraft, sondern deren Steckbrief sein.“(2) Genau diese „Geschmeidigkeit, Toleranz und Wendigkeit“, diese Subtilität, Bescheidenheit und Offenheit, dieses sanfte, empfindsame, empathische Ineinander-Schmelzen erscheint in den Mikro-Narrativen gewisser Künstler, wobei Toleranz, Empathie, Partizipation und „penetrability of cultures“ zum zentralen Moment der künstlerischen Praxis werden.
Lyotard formuliert es ganz klar und präzise so, dass „Geschmeidigkeit und Toleranz“, Empathie und Bescheidenheit gar nicht Zeichen von Schwäche, sondern im Gegenteil, die Manifestation der anthropologischen Komplexität und der ethischen, solidarischen, emotionellen, humanen Relevanz sind. Das empathische, tolerante Verstehen des Anderen, beziehungsweise die Suche nach der Möglichkeit der wahren, intimen Begegnung mit dem Anderen, die Wahrnehmung des Anderen als Teil des Selbst beinhalten die Verantwortung für den Anderen als wesentlicher Bestandteil des Humanen. Wie es Emmanuel Levinas im ethischen Kontext formuliert: „The only absolute value is the human possibility of giving the other priority over oneself.”(3) Diese Bereitschaft, dem Anderen zu begegnen und dadurch das Selbst anders zu verstehen, führt den Künstler zur Suche nach Momenten und Situationen, in denen sich der Zustand der echten, tiefen, empathischen Wahrnehmung der Einheit des Seins offenbart.
Diese enigmatischen, sensiblen Momente verbinden das Fragile, das Zerbrechliche, das Vergängliche, das – scheinbar – Unwesentliche mit der Andeutung des Essentiellen, des Wesentlichen, des Grundsätzlichen, welche sich durch unsere Empathie in den scheinbar unbedeutenden, fragmentierten Erscheinungen begreifen lassen. Die metaphorischen Andeutungen dieser Mikro-Narrativen beziehen sich auf die Wahrnehmung dieser seltenen, enigmatischen Begegnungen mit dem Anderen, als Teil des Eigenen, als Erfahrung einer latenten, tiefen Verbindung zwischen dem Unmittelbaren, Persönlichen und den breiteren, intelligiblen Perspektiven unserer grundsätzlichen humanen Orientierung.
Yves Bressons merkwürdige, enigmatische, gleichzeitig bekannt, vertraut und beunruhigend fremd, beängstigend unbekannt erscheinenden, verzauberten, ambivalenten und suggestiven Formationen evozieren die Anwesenheit von etwas grundsätzlich Wichtigem, Archaischem und Fundamentalem. Sie erscheinen als ein Gesicht, als etwas, wie unser Spiegelbild, welches uns ermöglicht, uns mit unserer eigenen Gestalt unmittelbar und radikal auseinanderzusetzen, uns selbst im Image des Anderen zu erblicken und zu erleben. In diesem fremden und gleichzeitig bekannten Gesicht erscheint der Andere oder das Gemeinsame, welches das Selbst mit dem Anderen verbindet. Das Anschauen des Anderen wird zum Selbsterkennen, aber im selben Moment auch das Erkennen des Nachbarn in uns. Das Erkennen des Verbindenden, des Gemeinsamen, der Einheit der Existenz trotz und durch die Vielfalt und Diversität verleiht diesem besonderen Moment der Offenbarung des Essentiellen meditative Vollkommenheit, wenn auch nur provisorisch und beschränkt. Man bekommt das Gefühl, dass hier etwas Wesentliches vermittelt wurde, dass es hier um einen Ort der Offenbarung geht. Diese stille Katharsis braucht keine theatralischen Gesten, sondern äußert sich in der Intensität des Gefühls des Prozesses der Wahrnehmung und Teilnahme. Der besondere Ort der Offenbarung bekommt die Gestalt des Gesichtes, des Gesichtes des Selbst und gleichzeitig des Anderen.
Yves Bresson arbeitet mit rätselhaften aber gleichzeitig banalen Formationen der Natur, wie etwa Felsen, Steinen, Erde oder Wüstensand, wie Wasserflecken auf der Straße, wie etwa gefundene lmagen, welche Bilder des Gesichts des Anderen, des Fremden, des Nachbarn evozieren. Oft bekommt der leere Ort eine fast magische Bedeutung, jedenfalls aber eine meditative, rituelle Entität, wobei sich etwas abgespielt hat oder noch abspielen wird. Die Annäherung an die kleinen, scheinbar unbedeutenden Nuancen, an die fast unbemerkbar bleibenden kleinen Transformationen öffnet den Weg, die gesamte Narrative der Fragilität neuzudenken. Aus den durchaus kleinen, fragilen Mikro-Konstellationen entfaltet sich ein Image eines Gesichts, welches uns mit dem Bild des Anderen, des Fremden, des Nachbarn, beziehungsweise mit einem Urbild des Menschen verbindet.
Das Gesicht des Selbst, welches in den diversen Gestalten des Anderen erscheint, sich ständig in dem Gesicht des Anderen erkennt, bildet Ugo Gilettas grundsätzliche Narrative, wobei das Enigmatische der Identifikation mit dem Anderen eine starke emotionelle Intensität schafft. Ugo Giletta arbeitet konsequent und fast ausschließlich mit dem menschlichen Gesicht, mit einem archaischen und gleichzeitig beängstigend sensuellen Urbild des Menschen. Seine Gestalten sind keine Portraits, keine Darstellung bestimmter identifizierbarer Personen. Sie sind unpersönlich und fremd, dinglich und schweigsam. Ihre enigmatische Fremdheit lässt sie nirgendwo einordnen, in keinem System klassifizieren. Sie sind einfach da, in ihrer dinglichen Objektivität, ohne Erklärung ihrer Zugehörigkeit, Abstammung, Geschichte oder ihres Wesens. Die Abwesenheit psychischer, persönlicher Charakterzüge ihrer Körperlichkeit entfremdet diese Gestalten von jeglichen anekdotischen Narrativen. Sie stehen da, ohne eigene, persönliche Geschichten, pathoslos, heimatlos, trostlos.
Die grau-blauen und erdfarbenen Töne suggerieren etwas Archaisches und Fernes, etwas Fremdes und Dingliches, Skulpturales, obwohl die Körper von einer latenten, aber starken und unwiderstehlichen Sensualität durchwärmt sind. Sie sind lebende Wesen, ohne Personifikation, ohne Privatgeschichten, ohne Identifikation, ohne konkrete Existenz. Dieser scheinbare Antagonismus verstärkt die poetisch determinierende, grundsätzliche und unauflösbare Ambivalenz dieser Gestalten: Einerseits steht etwas Uraltes, Solides, Geschlossenes, Kompaktes, Dichtes, Einfaches und Allgemeines vor uns, das Konnotationen der archetypischen Darstellungen des menschlichen Gesichtes als einzige kraftvolle, relevante, grundsätzliche Referenz der mentalen Orientierung aktiviert, wie das universelle Imago, welches seine universelle Legitimität endgültig verloren hat. Anderseits bekommen die Gestalten gewisse unmittelbar und psychisch wahrnehmbare, partikuläre und spezifische Momente des sensuellen Daseins, das heißt, sie beginnen als etwas äußerst und provokativ Anspruchsvolles, Kräftiges, Vitales, Souveränes, Unverwechselbares zu existieren, obwohl sie keine konkreten Personen, keine Partner sind. Sie nehmen ihren Platz in der Welt ein, sie füllen den leeren Raum, sie sind anwesend, aber ihr rätselhaftes Schweigen, ihre unantastbare, solide, kontextlose Dinglichkeit machen sie zum Fremden. Diese tragische und dingliche Fremdheit stammt genau aus dem Verlust der universellen Legitimität. Das Gesicht steht da, leer und allein, definitiv ausgeliefert dem Nichts, da es keine universelle Referenzen seinen Status legitimieren. Das universelle Imago ist zur Maske der Leere geworden.
Obwohl diese enigmatischen Gestalten still, bewegungs- und willenlos in den leeren, undefinierten Raum gestellt sind, obwohl sie eine gewisse Zeitlosigkeit und dingliche Indifferenz suggerieren, beinhalten sie dennoch eine innere, verborgene Spannung, eine merkwürdige, latente Energie, die sie zu beherrschen scheint. Wie in einem ewigen Wartezustand, stehen sie an einem Nicht-Ort, in einer undefinierten Leere, wobei jeden Moment ein Ereignis der Verwandlung, eine prinzipielle, dramatische Veränderung des Status, eine radikale Umwertung ihres Wesens und ihrer Geschichte geschehen kann. Gerade diese beunruhigende Ambivalenz macht diese Gestalten so suggestiv und interessant, eben diese latente Potenzialität einer wahren Geschichte macht sie so wichtig für uns: Sie tragen eine Botschaft in sich, sie haben eine wesentliche Bedeutung für den Betrachter, sie suggerieren trotz ihrer indifferenten, bewegungslosen Dinglichkeit, trotz ihrer Stille, ihre Fähigkeit, etwas Wesentliches vermitteln zu können. Die enigmatische, dingliche Stille birgt etwas Uraltes, Archaisches in sich, etwas, das an die großen gemeinsamen Erfahrungen erinnert.
Denisa Lehockás subtile, kleine Erzählungen stellen keinen Anspruch auf abstrakte, universalistische, monolithische Weltanschauungen, sie stellen keine teleologischen Konstruktionen der fatalistischen Notwendigkeit dar, sondern thematisieren intime, zerbrechliche, komplexe, unmittelbare Verbindungen und empathische Konstellationen, wobei die Partizipation an den Realitäten des Anderen, die Entfaltung möglicher neuer, konkreter Verbindungen innerhalb der provisorischen Mikro-Kommunikation eine dichte, reiche, offene und subtile Narrative erzeugen. Fragilität statt Stärke, spontane Empathie statt Determinismus, Subtilität statt teleologische Notwendigkeiten prägen ihre kleinen Erzählungen. Sie reflektieren fast unbemerkbare, intime Geschehen, merkwürdige Umwandlungen von Gegenständen zu vitalen, pflanzenartigen oder körperlichen Formen, die ständige Transformation jeweiliger Gestalten, deren provisorische Verknüpfungen und Verschmelzungen eine fragile, vergängliche, poetische Einheit und Harmonie schaffen. Diese provisorische Harmonie ist zerbrechlich und subtil, dennoch manifestiert sie eine gewisse neue, emotionelle, empathische Kohärenz, also eine verborgene Orientierung, welche sich gegen die Desintegration und Indifferenz mobilisiert.
Denisa Lehocká versucht in ihren Zeichnungen und Installationen subtile, poetische, evokative Konstellationen zu gestalten, wobei die miteinander verbundenen Motive und Zeichen, die aufeinander geschichteten Referenzen diverser Lebensbereiche, die Dinge des Alltagslebens und der Natur, die Fragmente der organischen Systeme und der sachlichen, dinglichen Artefakte eine neue, vitale, emotionale Kohärenz der Existenz suggerieren. Die so entstandenen Mikro-Organisationen und Mikro-Habitate manifestieren eine gewisse mögliche Strukturierung diverser Erfahrungen, Lebensbereiche, Zeichensysteme und Attitüden, welche sich auf diese Weise in einer intimen, vitalen, sinnvollen, erlebbaren – wenn auch provisorischen, beschränkten, zerbrechlichen – Vollkommenheit der Existenz zeigen. Denisa Lehockás poetische, rätselhafte, evokative Assemblagen deuten latente, intime, subtile Geschehen an, welche die trostlose, orientierungslose Fragmentierung unserer alltäglichen, sachlichen Handlungen umdeuten und unsere emotionellen Fähigkeiten in Richtung einer aktiven Empathie aktivieren.
Trotz ihrer Fragilität, oder vielleicht gerade wegen dieser, sind diese poetischen, subtilen, provisorischen, ephemeren, rätselhaften Mikro-Konstellationen fähig, einen latenten, stillen, pathoslosen, bescheidenen Widerstand gegen die fatale Orientierungslosigkeit und Indifferenz zu leisten. Gerade in den fragilen Mikro-Organisationen, in den antihierarchischen, empathischen, poetischen Konstellationen scheinen die Perspektiven einer humanen Kohärenz auf, welche noch fähig zu sein scheint, die fragmentierten, verfremdeten, abgenutzten, manipulierten Dinge miteinander in Verbindung zu setzen und dadurch neue, empathische, vitale Zusammenhänge, verlorene humane Relevanzen, unmittelbare emotionelle Relationen zu schaffen. Diese provisorischen, zerbrechlichen, antihierarchischen, sich spontan selbststrukturierenden, organischen, scheinbar willkürlichen, ephemeren Mikro-Konstellationen sind die seltenen Felder der Empathie, auf denen es noch möglich ist, unseren Handlungen eine gewisse Kohärenz zu geben. Denisa Lehocká zeigt uns mit ihrer Bescheidenheit versteckte, latente Wege der Erfahrung der Empathie.
(Roma, Februar 2013)
Fußnoten:
1. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illionis Press, Urbana and Chicago 2006. p. 23.
2. Jean-François Lyotard: Grabmal des Intellektuellen. Edition Passagen, Graz – Wien 1985. p.18.
3. Emmanuel Levinas: Signification and Sense. In: Humanism of the Other. University of Illionis Press, Urbana and Chicago 2006. p. 22.
Catalogo della mostra VISIONI DEL CONTEMPORANEO Palazzo Lucerna Di Rorà, Bene Vagienna (CN) (Italy) 2012
VOLTI DAL SILENZIO
"Supponi che vi sia nella nostra anima una cera impressionabile, in alcuni più abbondante, in altri meno, più pura negli uni, più impura negli altri; e in alcuni più dura e in altri più molle e in altri ancora una via di mezzo… È un dono, diciamo, della madre delle Muse, Mnemosine: tutto ciò che desideriamo conservare nella memoria… si imprime in questa cera…"
(Platone, Teeteto)
È fuor di dubbio la componente filosofica che anima la poetica di Ugo Giletta. Di ciò dà palese testimonianza la profonda lettura critica di quanti hanno considerato la sua opera.
Siamo in presenza di un autore che ha maturato, attraverso un'idea del tempo tutta personale e non assimilabile ad alcuna convenzione storico-sociale, una visione dell'esistenza, e del suo "oltre", ricca e articolata su molteplici livelli speculativi, traendone immagini complesse, proprie di un presente sentito nella sua labilità e inquietudine.
Oggi Ugo ha voluto proporre un percorso monotematico, almeno in apparenza, giocando sul registro pittorico e su quello della videoinstallazione; l'artista infatti si dedica ormai da molti anni al discorso multimediale, in cui ha trovato una delle espressioni più congeniali al proprio temperamento.
Ciò che induce a riflettere sulla straordinaria sequenza di "volti" che arrivano agli occhi dello spettatore - quasi fossero anime dimenticate, desiderose di un impossibile riconoscimento - è il tempo separato e annullato in cui fluttuano quelle creature insieme dolci e tragiche, lontane eppure sentite come riflesso di ognuno.
Accade che nell'artista si verifichi una particolare iterazione dei soggetti ma, paradossalmente, in un contesto visuale opposto a quello della pop art; in quest'ultima gli esiti erano di proposito spersonalizzanti, tendenti allo stereotipo; nel caso di Giletta, la volontà di conservare, malgrado tutto, l'individuo, ciò che è indivisibile - sia pure come ombra di sé - spinge a concentrarsi sull'immagine unica nella sua molteplicità, portando chi osserva a isolare singoli elementi, siano essi gli occhi, la bocca, o anche le macchie-ombra che segnano le varie parti di un volto.
L'idea speculare dell'"altro", in questo caso muto, cioè in-fante, fa regredire chi guarda a uno stadio prenatale o post-mortem, dove la zona fantasmatica è dominante. Ogni superficie riflettente, fontana o specchio (anche mentali) non può che rimandare al mito di Narciso, qui presente in un'accezione psicologica, in un'immedesimazione quasi ipnotica, però indubbiamente illusoria e indecifrabile. Il desiderio di afferrare il mistero di questi volti senza corpo ma definiti da una nudità che si avverte, provoca sia nell'artista che nel fruitore una sensazione di perdita, una malinconia per queste figure interiori, questo "inquieto popolo di meticci", per usare una definizione di Freud1. Empatia e alterità rappresentano gli estremi del senso suscitato dalla multiforme schiera di strani angeli-ectoplasmi proiettati in una dimensione sospesa nell'assenza di spazio/tempo; qui un diaframma opalescente rende vana e nebulosa ogni reciproca percezione. Ne consegue un'apoteosi del silenzio in senso cosmico, già divinamente intuita da Rimbaud nel verso "… Silences traversés des Mondes et des Anges…"2.
Platone, citato in apertura, parla della cera quale materia, proverbialmente muta, plasmante, in senso traslato, l'anima e la memoria individuale.
Sia pure con l'intento di tradurre l'impressionismo in linguaggio plastico, già Medardo Rosso, sul finire dell'ottocento, aveva utilizzato la cera per le sue sculture. In opere come "Ecce puer" e "Donna velata" è ravvisabile un'immagine non lontana dai volti creati da Giletta, per la spiccata indeterminazione fisiognomica e per la lieve mobilità dei soggetti. Benché nel nostro artista si tratti di pittura, non sfuggirà, a chi ponga attenzione alle sue misteriose icone, la fluidità incorporea della stesura acquarellata quale metafora della "scomparsa del tempo", acutamente colta Lóránd Hegyi, critico e studioso interessato al lavoro di Ugo3.
L'idea del tempo cancellato in virtù di forze più o meno manipolabili da parte dell'uomo è stato uno dei più arrovellanti temi letterari, da Verne a Wells. Ma la mitica "macchina del tempo" non riguarda direttamente il discorso di Giletta; piuttosto vi si accosta l'ipotesi, formulata nell'"Invenzione di Morel", romanzo di A. Bioy-Casares (1953) in cui viene messo a punto un congegno capace di registrare le apparenze degli esseri e di riprodurli eternamente sostituendosi al mondo reale: "… Così, dopo la morte, la psiche, che è identica allo spirito, diventa "eidolon", un'immagine, un sogno…"4.
Un aspetto particolarmente affascinante del percorso visivo è rappresentato dall'installazione nella quale Ugo compie un audace balzo dalla pittura al video, senza mediazioni fotografiche o ritrattistiche di alcun genere.
Anche qui sono i volti ad essere i protagonisti dell'operazione, ma ora attraverso un risalto del vero quasi caravaggesco, trattandosi di persone reali, per giunta abitanti i luoghi in cui affondano le radici dell'artista.
Un'identità e un'appartenenza che parrebbe muoversi in direzione contraria all'indeterminazione e all'inafferrabilità dei dipinti. In realtà si verifica unicamente una trasposizione linguistica, mentre permane la lievissima dinamica mutante dei volti e la distanza tangibile tra chi guarda ed è guardato a sua volta.
Questa forte e fatale visione di umane tensioni che invano cercano la via di un'interazione continuamente differita, ci avverte che nessun incontro potrà avere luogo in una situazione di annientamento temporale, venuta ormai a mancare una delle coordinate della conoscenza.
È questa dunque la condizione dei nostri "ultimi giorni"? Dopo tutta una serie di post - capitalismo, modernità, umanità, ecc. - il tempo sembra aver reso tutti orfani e naufraghi, presenze disgregate, "disiecta membra".
In questo teatro d'ombre sta forse sorgendo una negatività del tempo in cui l'uomo cerca disperatamente di introdursi per superare quella soglia che è il mondo cosiddetto "reale", limite invalicabile: non c'è che una definizione relativa del "dopo" e l'intensità del desiderio è destinata a rimanere inappagata.
1 Cfr. G. Agamben "Stanze", parte terza, cap. secondo "Eros allo specchio", Torino 1977
2 J. A. Rimbaud "Voyelles", sonetto dal manifesto de "L'Alchimie du verbe", 1884
3 Mostra personale di Ugo Giletta "Immagini dell'abbandono" a cura di Lóránd Hegyi, Ex
Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi, 2011
4 Jean Clair "L'ultima macchina - Note sull'Invenzione di Morel", in "Le macchine celibi" a cura
di H. Szeeman, Milano 1975
In THE BUSAN LLBO (Daily News) - Corea
Catalogo della mostra. 2014
Identità in divenire Piccole storie d’infinita alterità. Il Filatoio di Caraglio. Caraglio (CN) (Italy)
Identità in divenire
Piccole storie d’infinita alterità
Ivana Mulatero
Prologo
Da ivana mulatero
a ugo giletta
Data: 29 maggio 2014 19:34
Caro Ugo, trovo una curiosa similitudine tra l’andamento asincrono delle relazioni umane nella
corrispondenza e-mail, un modo di relazionarsi in cui non c’è la contemporanea presenza del
mittente e del ricevente, e i personaggi delle tue videoproiezioni, ognuno ripreso con tempi sfasati
e poi ricomposto in una veduta d’insieme dalla quale si avverte come un sintomo di conturbante
armonia, l’avvenuta frantumazione dell’unità di percezione naturale. Ho così pensato di proporti un
approccio alla mostra che non è solo quello di scrivere un saggio per il catalogo, ma di restituire un
percorso d’avvicinamento alle opere e di conoscenza del progetto in continuazione di un nostro
incontro avvenuto realmente in una fase intermedia dell’allestimento della mostra. Il testo che ne
deriva, cercherà, per quanto possibile, d’essere aderente al continuum vitale affiorante “dalla
macchie d’esistenza” e dalle “vedute” tra film, video, acquerelli su carta e su tela, disegni a punta
d’argento e d’oro su gesso. Sarà la scelta con cui accompagnare lo svolgersi di una mostra che ruota
intorno al tema dell’identità in divenire con piccole storie d’infinita alterità.
La Venere e lo Sciamano
Ivana Mulatero: Ripensando all’ouverture della mostra, hai voluto che il visitatore, appena varcata
la soglia, incontri per prima l’idea di una strada sulla quale un personaggio percorre un’opera del
1999. E’ lo sciamano, tu dici, ma che a mio avviso, porta con sé i caratteri del pellegrino senza
domande che vaga per il mondo, essere vagante su una gran terra desolata com’ebbe a scrivere
Nico Orengo. Quello sciamano tradotto in figura tridimensionale con un’impalcatura di fili
d’acciaio su cui s’innesta una piccola testa modellata in gesso, si regge in piedi con una canna che
sfiora la base di piombo. Nel riflettere su questo soggetto, penso in particolare a Beuys. Molti dei
suoi lavori sono caratterizzati dalla presenza del “bastone eurasiatico”, un’asta di rame che rievoca
al tempo stesso la sua infanzia tra i pascoli e la tendenza a porsi come pastore spirituale,
esprimendo con le sue opere una precisa volontà di “essere nel mondo” attraverso azioni
sciamaniche, nella convinzione di proporre l’arte come mezzo di liberazione personale e sociale.
Nell’inserire in apertura della mostra questo soggetto, e quindi conferendogli un valore d’incipit di
una storia, hai considerato quanta parte ha avuto nell’arte la figura dello sciamano? E quanta parte
ha nella tua opera?
Ugo Giletta: Il contesto socio-politico e culturale in cui Beuys operava, era molto diverso da quello
che stiamo vivendo attualmente. L’opera di cui parli è ispirata proprio a Beuys e l’importanza di ciò
che volevo rappresentare è esattamente focalizzata sul bastone. Forse anche a me ricorda l’infanzia
tra i pascoli, essendo io d’origine contadina, ma la pura funzione è quella di sorreggere la struttura
che sta a simboleggiare l’individuo contemporaneo che percorre una strada in divenire. Se si prova
a spostare la “canna” fuori della stretta lastra di piombo, la figura perde l’equilibrio e cade.
Il titolo “Lo Sciamano” è da leggersi con inquieta ironia. Nella mia figura l’individuo ha bisogno
di un sostegno perché insicuro nel proseguire il proprio cammino e non ha nulla del pastore
spirituale celebrato da Beuys. L’uomo contemporaneo, un essere vagante su una gran terra
desolata, si sente mancare i valori etico-sociali e vive la fragilità di questo momento precario.
I. M.: Nel medesimo anno in cui hai realizzato la figura dello sciamano, crei un acquerello su gesso
con fili d’acciaio, stracci e bigiotteria a cui dai il nome Venere 2000 e che apre la seconda parte del
percorso espositivo della mostra. E’ grottesco il contrasto tra il titolo e l’aspetto che certamente non
esprime la bellezza e la perfezione delle forme. Una Venere a metà oggetto e a metà feticcio che sta
lì per essere guardata. Dietro di lei, intorno a lei, si effonde una voce, un subbuglio di parole
declamate dalla poetessa Anne Sixton che narrano il rapporto amoroso tra una donna e il suo
amante. La sua voce ha un senso di significazione verbale e un valore d’immagine sonora
straordinari. Indagare sull’impossibilità della realizzazione del desiderio e l’incapacità della
protagonista di accettarne la privazione, significa indagare sull’identità stessa dell’artista,
prigioniero nella solitudine della propria espressività. A questi limiti, il tuo lavoro cerca di dare una
risposta mediante uno scambio produttivo degli strumenti comunicativi, mescolando oggetti
linguistici visivi (la stoffa, il gesso, le collane, ma anche le microimmagini tratte da alcuni film
pornografici scoperti tra vecchie bobine a 8mm), oggetti linguistici verbali (il testo della poesia) e
oggetti linguistici sonori (il timbro caldo e profondo della voce). Una mescolanza che coltiva, forse,
l’utopia dell’arte totale e nel contempo trattiene il senso del vivere in una società dominata dal
bisogno bulimico dei selfie, una società perduta nella veloce estraneità del mondo.
Il sé e l’altro
I. M.: Come indica il titolo della mostra “Identità in divenire”, la strada è un divenire verso il
futuro, attraversata con l’incertezza dell’uomo contemporaneo, di cui il tuo lavoro continua ad
occuparsene nell’idea dei volti. Guardo al volto dello sciamano come ad un grumo di gesso, dai
tratti striduli e impastato con l’ottusità di una zolla di terra. I segni sulla strana testa-grumo rigano la
superficie scabra ed esprimono l’ipotesi di un’identità. A mio avviso tu ricerchi e custodisci il
sacro, inteso qui come un’attenzione per la profondità dei sentimenti, per un’integrità della persona,
il sacro come domanda d’autenticità verso se stessi e verso gli altri.
Una domanda che si rivela a proposito dello sguardo rivolto a se stessi e all’altro, si dispiega nella
similitudine tra l’idea della contemporaneità del volto visto su un monitor, in un‘opera del 2004, al
quale di contrappunto si rimanda ad un altro volto, un acquerello su tela del 2014, incorniciato con
un’antica cornice ghioscè. Nel primo, la tecnologia che è l’involucro rappresentativo della
modernità tecnologica, si accompagna alla figura di un uomo anziano, dunque il presente che
ritorna nel passato. Riprodotto in slow motion, l’anziano assume in varie fasi le stesse espressioni
dei volti dipinti, e dunque si apparenta all’acquerello che gli sta accanto. Come tu hai detto, ogni
volto ha una sua specifica espressione. Reca dentro di sé una propria condizione umana. L’Uomo è
il tutto. Nell’umanità siamo tutti totalmente individuali e ognuno di noi ha una propria storia che
cela o che manifesta, che può essere intima o che può essere raccontata. Anche per questo il
sottotitolo della mostra è “Piccole storie d’infinita alterità”.
Guardando più attentamente il video dell’uomo anziano, che tra l’altro piace riconoscere nella
geografia del suo volto i segni di un’umanità antica, solcata da rughe e che tutto ha visto, si
scoprono alcuni dettagli. Ad esempio, dietro di lui c’è l’introduzione ad un suo mondo, che
l’inquadratura non ha escluso. Perché hai voluto mantenere questa traccia di realtà, anziché
discioglierla nell’indistinto vuoto bianco presente nello sfondo del volto ad acquerello?
U. G.: Quando utilizzo il video, mi piace lasciare l’immagine inalterata e in tal modo ho la
possibilità di raccontare storie attingendo dalla realtà per rendere la vicenda più leggibile e di facile
interpretazione.
Nei volti realizzati ad acquerello, invece, l’azione è quella “del sottrarre” per acquisire uno stato di
sintesi. Nei volti dipinti le storie sono celate: solo chi guarda gli dà una vita, quello che per noi sarà
sempre e innanzitutto l’altro, la possibilità e la sorpresa dell’altro.
I. M.: Nella serie dei volti, uno spicca in modo particolare. Reca la data del 2008 ed è recentemente
ritornato da un’esposizione in Corea del Sud. Riguarda un dettaglio, una strana striatura di segni e
chiazze di colore che coprono come una benda la zona degli occhi, o di quello che noi crediamo di
riconoscere. Cerchiamo fessure scure da cui veder trapelare uno sguardo ma invano: con questo
soggetto ogni possibile aggancio visivo è negato. Con le debite differenze, vi è un Cristo deriso del
Beato Angelico, nell’affresco sul muro della cella numero 7 del dormitorio del convento di San
Marco a Firenze, nel quale Gesù che è bendato, viene molestato non da veri personaggi ma da
schiaffi e sputi, da violenze e da un bastone. Egli è immobile, seduto in maestà, mentre riceve
sbalorditive offese astratte sospese a mezz’aria. La scena quasi irreale e nel contempo didascalica,
sgomenta e affascina nella percezione di due stati d’animo opposti: l’umiliazione e il trionfo. Come
il Cristo dell’affresco, il volto dell’acquerello è accecato ma frontalmente presente, tollera
l’incertezza dei segni aggrovigliati, emersi dal vuoto bianco. Tollera di non fare nulla, di non
prendere decisioni o fare azioni, di non seguire idee preconfezionate. Tollera di non sapere, di non
capire, di non potere. Ma ribadisce questa negazione mostrandosi stranamente ingrandito,
occupando sempre l’intera dimensione del foglio e della tela, a volte estendendosi anche oltre.
Colto nel momento della decantazione, il momento del poi, il volto, dopo essere affiorato alla
superficie delle apparenze, sembra già spogliarsi della sostanza rappresentabile per mantenere solo
una preziosa capacità umana, quella di tollerare la sensazione di essere sopraffatti nella diluita
inconsistenza infinita.
Uno e molti mari
Prima che il sogno (o la paura) ordisse/mitologie o cosmogonie,/ prima che il tempo si coniasse in giorni,/ il mare, il
sempre mare, era e da sempre./ Ma chi è il mare? Chi è quell’impetuoso/ essere antico che rode i pilastri/ della terra
ed è uno e molti mari,/ ed è abisso e splendore e caso e vento?/ Lo scopri sempre per la prima volta/ se lo guardi, e ti
dà quello stupore/ delle cose elementari, le belle/ sere, la luna, il fuoco di un falò./ Chi è il mare? E io chi sono? Lo
saprò/ il giorno che succede all’agonia.
Jorge Luis Borges, Il mare.
I. M.: Le piccole storie proseguono e s’incontrano due ragazze sedute sul margine di una cascata.
La visione ci trasmette un senso di tranquillità ma anche d’alterità per l’atmosfera di rarefatta
apparizione. Sappiamo che il video è stato realizzato impiegando l’immagine della cascata come
sfondo, sulla quale si trovano le due donne. A prima vista l’opera riprende i grandi temi del
rapporto fra uomo e natura, avendo raccolto l’eredità della pittura, della videoarte e della
cinematografia moderna, riformulando i termini della questione visiva – natura e persona, sfondo e
figura – e ponendo il paesaggio come contesto “altro” che contiene anche il soggetto. L’inserimento
delle donne nella veduta di una cascata ci porta ad interpretare come una visione d’armonia e
d’equilibrio fra il singolo e il tutto. Un’armonia che ci conturba. La tua opera è visione di
paesaggio, un paesaggio dove la figura umana è presente, ma in cui è inscritta fortemente la tua
regia di sguardi che interviene sottilmente a scuotere la rappresentazione armonica fra natura e
uomo. La cascata mantiene il tempo reale della ripresa video, le due ragazze filmate in studio
separatamente l’una dall’altra, si muovono nel paesaggio con tempi rispettivamente sfasati del 50%
e del 75 % tra loro. Tu frantumi l’unità di percezione naturale e introduci una pluralità di forme
spazio-temporali. Spezzata la continuità senso-motoria dell’immagine-azione, dove il paesaggio
accoglieva con i suoi luoghi di straordinaria bellezza le gesta dei protagonisti, nelle tue opere i
raccordi tra soggetto e ambiente si rivelano infiniti ma isolati ognuno in se stessi, generando
micronarrazioni soggettive, ricordi d’infanzia, sogni o fantasmi auditivi e visivi, in cui il
personaggio sembra agire guardandosi agire.
Le donne siedono vicine, si potrebbe credere che stiano condividendo questo momento di sublime
incontro con la natura. Ma non è così. Il video ci costringe a considerare che ognuna è sola, isolata
nel suo mondo interiore e, malgrado le apparenze ci facciano credere che le esperienze
s’intrecciano, di fatto ci troviamo di fronte ad un involgimento dello sguardo su se stesso. L’opera
ci presenta la complessità della natura, maestra dello sguardo per gli artisti secondo il grande
Leonardo che ambienta la Vergine delle Rocce in un’umida grotta, il grembo della terra attraversato
da corsi d’acqua, entro il quale suggerire l’idea del mistero della natura e dell’origine della vita.
Vi è stata anche quest’opera leonardesca tra quelle che hai copiato quando eri ragazzo?
U. G.: Ricordo che copiavo le teste leonardesche ma non sapevo nulla di Leonardo.
L’opera video di cui parli, è nata dalla passione che ho avuto per la filosofia.
I miei studi sull’arte (da autodidatta), sono iniziati da un libro molto importante di Friedrich Hegel
dal titolo “Arte e morte dell’arte”. Il testo era per me, giovane neofita, molto difficile. Per riuscire a
comprenderlo ho dovuto avvicinarmi ad altri filosofi appassionandomi in maggior modo a
Nietzsche. Il riferimento alla grotta, più che a Leonardo, è allo Zarathustra.
I. M.: Alle due donne si vorrebbe chiedere quello che gli animali domandano a Zarathustra. “…stai
forse guardando per la tua felicità? Che cosa importa la felicità! egli rispose. Già da tempo io non
miro più alla felicità: miro solo alla mia opera. O Zarathustra - dissero ancora gli animali - tu dici
queste cose come uno a cui le cose vanno anche troppo bene. Non giaci forse in un ceruleo lago di
felicità? Pazzi burloni - rispose Zarathustra ridendo - come avete ben scelto la similitudine! Voi
sapete anche che la mia felicità è pesante e non è come un'onda fluente: mi incalza e non vuole
lasciarmi, e assomiglia alla pace liquefatta…”. L’incanto e lo stupore delle due donne è il nostro
stupore che il tempo, comune sostanza, possa essere condiviso. Non solo il tempo, anche le
riflessioni per una rigorosa elaborazione di concetti e misure mentali, che hai trovato tra le righe
formulate da Maurits Cornelis Escher, la cui monografica è allestita presso le sale espositive del
Filatoio di Caraglio, in contemporanea alla tua mostra. Non per nulla hai voluto leggermi una sua
citazione apposta su una parete e che recita: “Quale realtà è di fatto più potente: quella del
presente, assorbita istantaneamente dai nostri sensi e discernibile, o la memoria di quello che
abbiamo sperimentato in precedenza? Il presente è effettivamente più reale del passato?
Con tali riverberi di pensiero ci accostiamo alla tua opera “Omaggio ad Alda Merini” (2000), un
video in loop le cui immagini rubate con una telecamera in una sera d’estate, mostrano un uomo e
una donna che stanno giocando tra le onde del mare alla luce della luna. Le immagini scorrono con
la lattile consistenza verbale della poetessa che declama i versi “La carne e lo spirito”. La
meditazione e l’acqua sono sempre state culturalmente congiunte, dalle favole antiche al mito di
Narciso. Anche noi, come Narciso, vogliamo afferrare la stessa immagine, quella che vediamo
riflessa in tutti i fiumi e gli oceani. Ed è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita, la chiave
di tutto. Tuttavia le onde del mare, una dopo l’altra, non contraddicono l’aprirsi illusorio del
divenire, esprimendo l’eterno ritorno dell’uguale?
E’ forse la presenza dell’acqua, incontrata anche in un'altra opera “Un uomo guarda l’orizzonte del
mare” (2012), con cui si chiude la prima parte del percorso espositivo, a costituire una traccia di
continuità tra tutte queste storie?
U. G.: Il testo della poesia di Alda Merini parla di ricordi e di solitudine.
I ricordi sono storie vissute ripensate in solitudine e mutate per renderle più esclusive:
“…Sono piena di riti/e della logica dei ricordi/che viene dopo, quando si affaccia alla mia vita/
il rendiconto della verità giornaliera/ il sogno affogato nell’acqua”.
L’individuo umano è parte di una folla indistinta e il privilegio di essere soli ci rende unici:
“…Ma io e te siamo soli/come se fossimo stati creati/primi e per la prima volta;/io e te siamo
riemersi dal fango della folla/e giornalmente tentiamo di rimanere soli…”.
L’opera “Un uomo guarda l’orizzonte del mare” è il ricordo di una grande amicizia.
Quando ho realizzato le riprese, quell’uomo era lì per l’ultima volta a guardare il suo mare, la sua
vita. Dedicai a lui un lavoro dal titolo “Non è la voce del mare” e aggiunsi “Quando il lamento del
mare diventa voce, la memoria è d’immensi spazi mai più ripetibili”.
Oggi, a distanza di anni, guardando l’incessante movimento delle onde del mare riesco ad intuire
l’utopia dell’esistenza.
Quell’uomo che guarda l’orizzonte del mare era lì per insegnarmi la vita.
La condizione umana
I. M.: I volti nessuno li ama mai subito. Vogliono qualcosa da noi che li guardiamo. I volti non
urlano alla Munch, non si contorcono alla Bacon, però non “fanno sconti” e ci puntano dai loro
enigmatici abissi che sono poi una parvenza d’occhi, bocca e naso, nel bianco vuoto.“Questo
‘sguardo’ esprime che cosa? Il suo esercizio: una sua regolarità, una specie di costanza. […] Il
fondo non maschera più il personaggio al quale prestava l’alibi di una storia, di una finzione, cioè
al contempo di un senso lontano e di un ruolo”, per usare le parole di Jean-Louis Schefer, in
Figures peintes, e riportarle qui, al centro del nostro dialogo.
U. G.: Lo “sguardo” per me è quello dell’altro che esprime se stesso. Ma è anche il mio.
Mi piace pensare (come terzo escluso dall’opera e il suo fruitore), che nei volti ci siano un’infinità
di micro storie. Queste storie che io ipotizzo sono emozioni e sentimenti della ricchezza
d’ispirazione che la vita ci offre. L’esercizio è la ricerca della verità, della perfezione, della
bellezza, di dio, dell’assoluto ecc…, è l’ossessione reale o inconscia di ogni individuo. A volte
penso che l’utopia della vita ci ponga di fronte a questa questione e faccia sì che si cerchi una
risposta. O almeno anche solo fermarci di fronte alla domanda stessa. Un tentativo che, nel mio
caso, mi porta a reiterare lo stesso concetto con la conseguente consapevolezza dell’utopia stessa.
I. M.: I volti hanno poi un’insistita fissità frontale che si tempera in un apparente distacco nella
struttura scarna ed eterea. Nella notevole letteratura critica che ha accompagnato nei decenni lo
svolgersi del tuo lavoro, alcuni critici hanno parlato di Volti degli Angeli, dietro suggestioni
rilkiane (Giovanni Tesio), altri invece hanno suggerito ipotesi di icone laiche, immagini della
processualità metamorfica e drappi di Veronica (Franco Fanelli). Un ulteriore filone interpretativo
ha chiamato in causa la nebbiosa quiete di Spoon River nella quale i volti sono le sembianze dei
protagonisti (Daniela Trincia), la cui voce sfumata è priva di un vero rimpianto per il passato che
non c’è più. C’è poi chi, come Lórànd Hegy, ritrova in loro i muti testimoni della nostra epoca che
hanno trasformato in realtà “la povertà dell’esperienza umana” e il loro essere esprime la
condizione del mero esistere. Vi è una tendenza di ricerca che è andata intensificandosi nel corso
degli ultimi decenni, fino a divenire materia della riflessione degli artisti, sulla fragilità e aridità dei
sentimenti e sul fallimento della comunicazione fra gli individui. Nei volti non c’è urlo, il dolore di
per sé è cessato. Cosa rimane?
U. G.: Dirti cosa rimane mi è molto difficile perché io non progetto ciò che realizzo; non cerco
l’idea per rappresentare qualcosa, per dargli un significato. Mi piace pensare al mio lavoro come
“significante”.
Dalla letteratura critica, a cui fai riferimento, io ho appreso molte cose che non sapevo e quindi
grazie a voi che scrivete che io sono in grado di educarmi.
Posso parlare della realizzazione del lavoro ad un livello puramente formale: prima di iniziare a
dipingere non tento mai di costruire la figura cercando di far emergere uno stato d’animo o
un’espressione piuttosto che un’altra. La procedura esecutiva è sempre la stessa che si può
sintetizzare nel tracciare una forma ovale contenente 5 macchie che sono gli occhi, le narici del
naso e la bocca.
Il risultato non lo cerco e ogni volta mi sorprendo della conclusione.
L’effetto finale è che ogni volto ha una sua specifica espressione. Reca dentro di sé una propria
condizione umana.
Epilogo
Da ivana mulatero
a ugo giletta
Data: 4 giugno 2014 8:51
Caro Ugo, ti ringrazio di aver condiviso questo “gioco” che ci ha permesso di intravedere altre
storie infinite. La diversa approssimazione dei volti a pastello, iniziati in Corea, ci porterebbe a
riflettere sulla tecnica, sulla ricerca ossessiva di una perfezione che richiede un grande sforzo di
rinuncia. Non si sospetta che dietro alla leggerezza dei volti, alla loro apparente inconsistenza, vi
sono conoscenze e sapienze tecniche che si devono “dimenticare a memoria”, come direbbe il
concettuale Vincenzo Agnetti. Tu hai saputo abbandonare ciò che sai, l’accuratezza chiaroscurata di
un segno, la mimesi del reale nella modellazione delle materie, e non hai avuto paura di restare
senza niente, perché hai capito che alla fine è quel niente a sostenerti…
Più sottilmente, l’essenza del tuo lavoro consiste nella dialettica permanente fra pregnanze
soggettive (lo stupore, la rabbia, la serenità, l’ansia, la contemplazione, l’inquietudine), pregnanze
oggettive (il tempo, lo spazio, la natura, le cose) e categorie umane (la giovinezza, la vecchiaia, la
sessualità, l’alienazione mentale). Hai trasformato gli esseri, le figure e i volti, da soggetti ritrattati
in semplici ovali con cinque buchi. Hai cercato di contenere la naturalità degli effetti figurativi,
sperimentata nella fase degli “Eroi” espressionisti dipinti negli anni Ottanta e nelle prime prove di
reiterare un’immagine di un volto con la fotografia e il video dei primi anni Novanta, fino quasi a
cancellarla. L’idea del volto in sé rappresenta un fermare l’istante, mentre la volontà di esasperare il
fermo immagine nelle opere video mira a trovare un punto d’equilibrio tra passato, presente e
futuro.
La ragazza protagonista di un video del 2004, sembra tratta da un album fotografico vintage di fine
Ottocento, con l’acconciatura e gli abiti allusivi ad un’arcadia classicheggiante. La stessa apparente
primigenia innocenza risiede nel tuo sguardo filmico che cela ma anche rivela l’ambivalenza di
un’immagine della giovinezza che si antichizza o si modernizza, a seconda della lettura d’insieme e
dei singoli dettagli. La fanciulla ha un’acconciatura rasta, indizio di una contemporaneità tradita
dall’ambiguità visiva di una finta stampa al collodio umido. La dilatazione temporale giunge
all’estremo, finendo per far assomigliare moltissimo la ripresa video ad un’antica stampa di von
Gloeden. Nella luce soffusa, le espressioni interrogative del volto hanno una mobilità scandita in
frazioni di secondo in cui la ragazza muove gli occhi, si guarda intorno e poi guarda noi con un
senso di domanda, infine si acquieta e la storia può ricominciare senza una regia che guidi le azioni.
E’ solo un istante fermato e dilatato. E in questo brevissimo istante si può raccontare la storia di uno
stato d’animo. La ripetizione differente del “primo sguardo” nella luminosità di un’eterna albedo
dell’arte.
Catalogo della mostra 2003 - Volti, Galleria il Prisma, Cuneo (Italy)
Catalogo della mostra. 2008
Il volto dell'altro, LipanjePuntin artecontemporanea , Roma (Italy) - L'immagine come rivelazione, LipanjePuntin artecontemporanea, Trieste (Italy)
I volti di Ugo Giletta svelano o nascondono?
Sono l’impronta, labile e al tempo stesso scultorea, come ciottoli e pietre di fiume, di migrazioni notturne di mai nati? Procedo per interrogativi, come accade quando davanti si ha qualcosa che è fatto per sfuggire, e ci impone la sua ambiguità come un dato primario. Come un fatto da interpretare, prima ancora che estetico o tecnico: mi colpiscono, o non mi colpiscono quei volti, di cosa sono fatti?
Chi e cosa sono? Sono queste le domande che mi sono immediatamente venute, quando li ho visti per la prima volta.
So che Giletta legge Levinas, Nietzche, che studia il nichilismo, i testi di Baudrillard. Ma per me Giletta rimane un uomo di terra, che conosce stagioni e geografie, viottoli di campagna, sentieri di montagna, greti di torrenti e la pietra del Monviso.
Cerco allora di non farmi ingannare da un suo intellettualismo con il quale vorrebbe ridurre una, da lui, presupposta distanza fra periferia e centro, fra provincia e città. E quando guardo i suoi lavori provo sempre a riportarli, a riferirli, al cuore e alla sincerità della sua esistenza: alla grande cascina di San Firmino, dove ha vissuto infanzia e adolescenza, dove ancora ha il suo studio e lavora.
Così quelle <macchie d’esistenza>, quei <fantasmi>, quegli sguardi privi di luce, o che acquistano la luce dagli occhi di chi guarda, mi diventano presenze alle quali riesco a dare memoria e consistenza. Una memoria e una consistenza che sa di semiveglia e calura che offrono visioni, di umidità che disegna i suoi percorsi sulle pareti delle grandi stanze, di racconti dell’orrore fatti nelle stalle, di incubi notturni mentre la nebbia cancella campagna e pareti, e l’anima e il corpo galleggiano su confini privi di nome.
Mi diventano strappi in vecchie carte da parati, fotografie di parenti defunti,immigrati, illuminati da un lampo di temporale o da una candela inquieta sotto lo spiffero di una finestra che chiude male.
Ma forse non basta, perché se i volti di Giletta sono, per me, un album di famiglia, la sua ricerca è più aperta, più ampia. C’è una disponibilità ad accogliere un <altrove> senza fine, un altrove che, mentre offre le sue ombre, si rifà di continuo. E’una folla di ombre che fluttua fra passato e futuro, un mondo parallelo di pellegrini senza domande rinchiusi in un continuo stupore, esseri vaganti su una gran terra desolata, un limbo che si estende, volto dopo volto.
Giletta lavora sul concetto di identità? Certamente, e se penso alla folla parigina di Baudelaire, lui può dire di pensare a quella newyorchese di oggi. In entrambi i paesaggi la folla di volti ha perso l’urlo munchiano del dolore e dell’esistenza.Quei volti non coprono e non svelano. Sono così: hanno l’identità della non identità.
Ma io ho bisogno di una storia per guardarli, per collegarli l’uno con gli altri. Così non posso non pensare al Monviso e alle sue migliaia di esistenze che lo rodono al suo interno, alle migliaia di pietre che rotolano dai suoi fianchi finendo nel Po. E lì, da sotto il lenzuolo d’acqua, mostrano il loro assurdo stupore. Quello stupore che Ugo Giletta raccoglie su tela e carta e ci offre con un incanto misterioso.
Torino li: settembre 2003
Catalo mostra 2007 - Che peccato tu non possa assistere a questa felicità. Associazione Culturale Il Fondaco, Bra (CN) (Italy)
Non mi è chiaro se questa di Ugo Giletta sia una o tre mostre. Non mi è chiaro perché non vedo un nesso che attraversi e leghi ciò che l'artista propone che si guardi. Ci sono i suoi <fantasmi>, le grandi facce da limbo a interrogarci. C'è il video con ancora volti in una estenuante lentezza di movimenti e il corpo e i movimenti di una ballerina. Ci sono le grandi ragazze senza volto che disegnano con forza e ironia lo spazio.
Che rapporto c'è, e non mi interessa la comunione o la dissonanza dei materiali impiegati: l'acquarello e il video, fra questi <esseri>? L'analisi di uno sguardo? La Metamorfosi che uno sguardo può trasformarsi in corporeità elegante o pop?
C'è il vizio, tanto razionalista, di voler trovare <continuità> in una mostra? Forse...e se così fosse ecco allora che il motivo sotteso che giustificherebbe l'accostamento dei tre momenti potrebbe essere non tanto quello sdolcinato titolo proposto da Giletta “...che peccato tu non possa assistere a questa felicità!”, quanto un sonoro <Disturbo>.
Già, perché questo mi pare il tema forte della mostra: il disturbo. Tre momenti di dissonanza e disturbo:disturbano quei volti giganteschi che ti guardano e non sai da dove, disturbano quei due volti giovani costretti dalla tecnica del video, a mostrare la loro espressione come fosse un tic continuo, un gesto meccanico, una interruzione infinita di respiro. Disturba la felicità di quella ballerina chiusa nei suoi movimenti narcisistici, ripetibili e mai definitivi, l'illusione di una gioia che non trasmette gioia, ma se ne sta in uno spazio chiuso, carcerario, non condivisibile. Disturbano i grandi corpi femminili, senza volto, icone degli anni '70, del fumetto pop italiano con Yakula, Ira, Zora, vampire dalle ricche forme, un po' perverse e lontanissime dal gusto dolcificante delle maggiorate americane. Disturbano queste montagne di carne e di muscoli. Disturbano, come i precedenti soggetti, chi guarda.
E se il termine <disturbo> mi consente di dare una unità alla mostra di Giletta, ecco allora che posso declinare il disturbo, motivandolo non solo nello sguardo che devo offrirgli ma in qualcosa di più sottile ed inquietante: sulla rapina del tempo che mi richiede. Ugo Giletta <vuole tempo>. E' un pittore che ti divora il tempo, ripeto non solo quello dello sguardo, ma il tuo tempo interiore. Ti vuole divorare, da cannibale, svuotando il tuo tempo interiore e sostituendolo con le presenze del suo tempo. Lavorando sul disturbo, il disagio, il cannibalesco, divorando gli <oggetti> che mette in <scena> e gli spettatori che assistono a quella messa in scena, l'artista può perfidamemente permettersi di essere gentile con il titolo della mostra “...che peccato tu non possa assistere a questa felicità!”
Catalo mostra 2007 - Che peccato tu non possa assistere a questa felicità. Associazione Culturale Il Fondaco, Bra (CN) (Italy)
Incentrata su immagini dipinte, fotografate e video di corpi e volti, come espressione più direttamente immediata della condizione umana, questa personale di Ugo Giletta non è solo una complessa messa in scena delle tensioni che emergono nel rapporto fra arte e vita, ma anche in particolare una verifica delle potenzialità e delle peculiari specificità estetiche dei linguaggi visivi. Attraverso un confronto fra le connotazioni più individuali e manuali della pittura e l’apparentemente oggettività meccanica dei fotogrammi fissi o in movimento, l’artista arriva a mettere a fuoco anche un discorso metalinguistico e non solamente rappresentativo.
La mostra si sviluppa sostanzialmente in due parti, quella dei video e degli still frames ingranditi, e quella dei grandi dipinti, che per certi versi sembrano rispecchiarsi l’una nell’altra. In entrambi i casi troviamo come protagonisti da un lato delle figure di donna e dall’altro delle teste in primo piano.
In una delle due serie di quadri vediamo vari corpi femminili seminudi (sempre senza un’identità precisa perchè la faccia non compare mai) in varie positure eroticamente provocatorie. E nell’altra una sequenza piuttosto impressionante di grandi volti anonimi, dipiti ad acquerello, che ci guardano frontalmente trasmettendo uno strano senso di alienazione e angoscia. La pittura in entrambi i casi ha una connotazione abbastanza espressionista.
Al piano superiore ci sono tre grandi videoproiezioni. Il video centrale, che mi sembra il lavoro centrale dell’esposizione, ci mostra una ballerina che danza sola all’interno di un grande spazio con alle spalle due finestre che metaforicamente rappresentano l’apertura sul mondo esterno. La lunga sequenza della danzatrice è l’immagine in movimento di una appassionata fantasticheria amorosa, che purtroppo non potrà mai arrivare a concretizzarsi. Questa lettura ci viene suggerita dall’artista stesso con la seguente citazione da un testo Maurice Blanchot :
« …Presto saremo definitivamente uniti. Mi stendero’ con le braccia aperte, ti abbraccero’, rotolero’ con te in mezzo ai grandi segreti, ci perderemo e ci ritroveremo. Non ci sarà più niente a separarci. Che peccato che tu non possa assistere a questa felicità ». E non a caso quest’ultima frase è stata scelta come titolo della mostra.
Ai lati della danzatrice solitaria, con funzione essenziale di contrappunto ritmico e emotivo ci sono due proiezioni con due volti, uno maschile e l’altro femminile, ripresi in slow motion, con una lentezza quasi al limite fra video e fotografia : l’effetto è decisamente straniante. Lo spettatore è in grado di analizzare fin nei minimi particolari le variazioni progressive degli stati d’animo che i volti trasmettono con singolare intensità.
Insieme ai video ci sono anche alcuni grandi immagini fotografiche di fotogrammi del video centrale, che ci permettono di riflettere con tempi di lettura più calmi sul significato della performance della ragazza.
Tutti questi lavori di Giletta hanno in comune, al di là delle tecniche utilizzate, una poetica inquietudine di fondo che ha a che fare con l’enigma dell’esistenza.
Ugo Giletta e il volto degli angeli
Parlando di Ugo Giletta corre obbligo di presentarlo con le parole con cui lo descrisse Nico Orengo nel 1998 nel suo “Il salto dell’acciuga”: “Il mio amico Ugo Giletta è di Revello, il paese del futurista Fillia e del giardiniere Pejrone, vicino a Saluzzo. Dipinge grandi e piccoli quadri che hanno un segno prepotente, affilato… Ugo lavora a San Firmino, paese dove è nato, fatto di un’unica, grande cascina…”. In questa mostra alla galleria Il Prisma, grandi spazi su tre piani luminosi nel centro di Cuneo, Ugo presenta una serie di dipinti all’acquerello, una carrellata di ritratti che evocano un senso di bellezza idealizzata attraverso uno stile, in pittura come in scultura, caratterizzato dall’essenzialità delle forme.
Il critico “in” del momento per i giovani artisti emergenti Victor de Circasia (gli altri contributi all’originale catalogo edito con lo stile di un quotidiano in formato tabloyd sono di Guido Curto, Giovanni Tesio e Nico Orengo) così definisce questa performance: “Le sue esplorazioni delle forme in scultura lo hanno portato a creare un teatro di marionette e questo lo contraddistingue come un innovatore della commedia teatrale dell’inesistenza. Un lavoro artistico puntuale che richiede una reazione da parte del visitatore, mentre guarda l’artista come ladro di volti e rapinatore mascherato di sogni impossibili”.
A me il lavoro di Giletta piace, lo apprezzavo quando le sue figure violentavano con un forte tratto espressionista grandi tele, in scorci azzardati ed acrobatiche prospettive oblique, le stesse che poi hanno semplificato l’immagine in uno spicchio, scheggia, triangolo acuto, cuneo indagatore, la punta a naso che fiuta si insinua e fruga, indagando nell’intimo, subliminale impulso atavico maschio (maschile e maschilista) dell’azione esplorativa e del desiderio di possesso. Sono stato partecipe del suo riaffacciarsi alla figurazione - un ritorno, il riemergere dapprima di un uovo dal mare primordiale dove terre ed acque, luci ed ombre, non sono ancora state divise ma già accennano alla sedimentazione ed al riposizionamento del fiat, con l’attribuzione dei rispettivi ruoli, e poi della metamorfosi della cellula -, definibile col termine di faces (che non sai se leggere in inglese o in latino, ma poco cambia, quante volte si parla di guance rosse fiamma o di occhi di brace) in un concetto di volto: ora confuso, quando l’acqua che permea la carta a mano fontané già precedentemente pregna corre rapida a determinare i confini e trascina nel suo espandersi i segni più scuri degli occhi, e naso e bocca, e li rende attoniti e stupiti di saper trasferire la precarietà dell’ectoplasma o del fantasma in una vita reale, protagonisti materializzati da un ricordo, spettatori di emozioni sempre nuove rubate a chi lo guarda; ora meglio definito, dal gesso e dal pigmento a olio che marca sensi decisi, evidenziati da tessuti laceri per vesti e fiocchi di stoppa a mo’ di capelli, tenuti su da scheletri di fil di ferro che non piegano, e se flettono è per scattare avanti e vincere (mannequins, guerriere); ora proiettato addirittura sul muro con un video dove due volti iperreali dialogano facendo scorrere le loro parole dalle labbra sulle pareti, così come in un affresco del Beato Angelico, una ragazza dagli occhi straordinariamente belli e un giovane pieno di pacata malinconia.
Tante le vie di lettura - non è mai indispensabile che ci debba essere, ma è sempre bello confrontarsi con l’opera di un artista, a meno di non trovarsi davanti al Cristo morto del Mantegna o simili, dove il fascino soltanto si può subire - per una interpretazione di queste carte e sculture flottanti di Giletta. Quella prospettata da Curto: “Una galleria di ritratti che non raffigurano nessuno, ma rappresentano solo l’identità fluida della nostra società occidentale di massa e globalizzata. I dipinti danno corpo e carne all’anonimato di una folla indistinta”. A seguire de Circasia, che dice: “Sapere qualcosa sui lavori che Giletta ha fatto in passato, per vivere, può forse essere di qualche utilità per una maggiore comprensione di queste opere. L’artista ha lavorato a lungo alle poste. Uno dei suoi compiti può essere stato quello di collegare indirizzi a nomi, nomi che rappresentano persone, volti”. Poi l’indagine di Orengo: “Se i volti di Giletta sono, per me, un album di famiglia, la sua ricerca è più aperta, più ampia. C’è una disponibilità ad accogliere un altrove senza fine, un altrove che, mentre offre le sue ombre, si rifà di continuo… un mondo parallelo di pellegrini senza domande rinchiusi in un continuo stupore, esseri vaganti su una gran terra desolata, un limbo che si estende, volto dopo volto”. E ancora l’intuizione di Tesio, “Sono creature a cui Giletta, dietro suggestioni dichiaratamente rilkiane (il Rilke degli angeli “che guariscono il mondo”), consegna la sua ansia di redenzione. Presenze benefiche che conservano la loro nuda maschera di misericordia e di stupore”.
Catalogo della mostra. 2011
Immagini dell'abbandono. Ex Ospedale Neuropsichiatrico di Racconigi Cn Italy
Ugo Giletta e i volti della soglia
Il segno è quello della soglia, che converte il passo in passaggio. Un punto di varco che non è mai – tuttavia – se non l’annuncio di una congiunzione dubitante. E che è dunque – piuttosto – il segnale di una sospensione, la fragile declinazione di un’assenza che tende al suo rovescio. E’ a quella soglia impronunciabile che rimandano i “volti” di Ugo Giletta. Come le macchie (leonardesche) di umidità sui muri, come sinopie. Una traccia dell’incondito, di quel mistero che ci fascia e ci affascina. Non più fantasmi, non ancora incarnati. Ma già spiriti nascenti, soffi consistenti. La segreta letizia, ma anche l’infinita nostalgia di quelle espressioni informate e irripetibili. Sono il mistero della tela da cui aggalla la forma dell’origine. Angeli – non ectoplasmi – di un principio che è già – nel suo farsi – catastrofe e fine. Ma resta (ancora) annuncio e principio.
Ugo Giletta domicilia il suo segno nel dominio dell’inesprimibile. A prevalere in lui è il manque, la sottrazione. I suoi volti vengono dalla remota landa della spoliazione, una inaugurazione mentale che è immagine, ma non ancora (o non del tutto) figura, indizio che resta avvolto nel segreto. Volti senza corpo esplicito. Presenti-assenti – enigmatici e perturbanti – che stanno lì sulla soglia – appunto – in cui si gioca il transito dall’essere all’esistere. Affiorano e sembrano galleggiare. Emergono dagli abissi e fanno pensare a ciò che del bianco dicono Melville e Poe.
Non hanno tratti decisi. La loro fisionomia è fragile, fuggitiva e dipende dal giogo (sì, giogo) umile e sapienziale dell’acquerello, da una tecnica (orfica più d’ogni altra) che lega magia e attenzione: disposizione a cogliere l’immediatezza, a lasciarsi sorprendere e incantare, se è nella superficie la profondità. Nello stesso tempo hanno una strana fissità scultorea, di pietra, e sono incastonati nel bianco da cui emergono con numinosa e diafana fissità. Occhi senza bulbo, polipi, farfalle, aloni, macchie, non capelli, non orecchie, bocche senza labbra, maschere ridotte all’essenziale, ovali in cui restano appena segnati i remoti percorsi di un’alterità annunziante. Tracce, orme, ombre in cui passa una vibrazione cosmica. Compagni di una solitudine necessaria.
Sono le creature a cui Giletta, dietro suggestioni dichiaratamente rilkiane (il Rilke degli angeli “che guariscono il mondo”), consegna la sua ansia di redenzione. Presenze benefiche che conservano la loro nuda maschera di misericordia e di stupore. Di loro resta una sorta di stampo, un’idea incisa che viene da un paese lontano, remoto, arcaico, e dunque infantile, e dunque non privo di spavento e di tremori. Mitemente sublime, se il sublime potesse mai applicarsi alla mitezza. Rinserrati dentro un linguaggio tutto interiore, vengono dal vuoto e aspirano ad un silenzio condiviso. Semplicemente ci sono, e stanno lì ad incarnare l’enigma di un mondo estremo. Si affidano e sono fidati. Staccano la loro ombra dal fondo e appaiono leggeri come spiriti, come forme pure.
Ugo Giletta and the faces of the threshold
The mark is that of the threshold, which transforms the step into passage. Yet, a gateway which is never but the announcement of a doubting conjunction. And which is therefore, rather, the signal of a suspension, the fragile declination of an absence aiming at its reverse. It's that unpronounceable threshold that Ugo Giletta's "faces" refer to. Like (Leonardo’s) patches of damp on the walls, like sinopias. A trace of the incondite, of that mystery which surrounds and fascinates us. No more ghosts, still not personified. But already nascent spirits, substantial breaths. The secret delight but also an infinite nostalgia for those unformed, unrepeatable expressions. They are the mystery of the canvas from which the origin form comes to the surface. Angels - not ectoplasms - of a beginning which already is, in its formation, catastrophe and end. But (still) remains announcement and beginning.
Ugo Giletta places his mark in the domain of the unutterable. What prevails in him is the manque, the subtraction. His faces come from the remote land of divestment, a mental inauguration which is image, but still not figure (or not completely so), a clue that remains wrapped in secret. Faces without an unequivocal body. Present-absent, enigmatic and disturbing, which are, precisely there, on the threshold, where the transit from being to existing is brought into play. They come to the surface and seem to float. They emerge from the abyss and make us think of what Melville and Poe say about white.
They don't possess marked features. Their physiognomy is fragile, fleeting and depends on the humble and sapiential yoke (that's it, yoke) of the watercolour, on a technique (Orphic more than any other one) that binds magic and attention together: disposition to seize the immediacy, to abandon oneself to surprise and enchantment, if on the surface is deepness. At the same time they have a strange sculptural fixity, of stone, and are mounted in the white from which they emerge with numinous, diaphanous fixity. Eyes without eyeball, polyps, butterflies, haloes, stains, no hair, no ears, mouths without lips, masks that are reduced to the essential, ovals where the remote paths of an announcing otherness remain hardly marked. Traces, footprints, shadows crossed by a cosmic vibration. Companions of a necessary solitude.
These are the creatures to whom Giletta, on explicit Rilkean suggestions (the Rilke of the angels "who heal the world"), entrusts his anxiety for redemption. Beneficial presences that keep their bare mask of mercy and amazement. What remains of them is some kind of mould, an engraved idea coming from a country that's far away, remote, archaic and therefore childish, and thus not unfrightened or without shivers. Meekly sublime, if the sublime could ever be applied to meekness. Locked up in a fully inner language, they come from emptiness and aspire to a shared silence. They simply exist, and remain there to incarnate the enigma of an extreme world. They trust and are reliable. They raise their shadow from the background and appear as light as spirits, as pure forms.
Catalogo della mostra. 2008
Il volto dell'altro, LipanjePuntin artecontemporanea , Roma (Italy) - L'immagine come rivelazione, LipanjePuntin artecontemporanea, Trieste (Italy)
Francesco Tomatis
Donde sei volto? La pittura trinitaria di Ugo Giletta
Il sistema e percorso pittorico di Ugo Giletta non è a ciclo chiuso, non solo perché inconcluso. Non solamente per la reiterazione dello stesso in infinite sfumature nei principali soggetti da lui eletti: la forma, i corpi, i volti, ma soprattutto in quanto essi stessi aperti, singolarmente e assieme, a un altrove assente ed epifanico assieme. In Giletta ci troviamo immessi in una dimensione di pittura trinitaria la cui comunione di distinti è sovrasostanziale, va al di là, senza essere, delle singole persone-dimensioni-azioni e persino delle loro infinite, per quanto non sempre visibili, interrelazioni. Ma di trinitarietà profonda si tratta, senza intenzioni dissacranti né santificazioni.
Perché parlo di pittura trinitaria, forse estremamente cristiana, in Giletta? Il suo cammino pittorico inizia figurativamente con le opere giovanili, in cui predilige i corpi di donne e uomini, senza volto spesso, in quanto coperto dalle chiome nei soggetti femminili, nei maschili poiché perlopiù visti di spalle. In entrambi comunque i corpi mostrano una carnalità mortale: viva tuttavia in rapido consumo, muscolare ma non per questo gloriosa, marcatamente ombreggiata dalla patina del tempo benché vitale, plastica, dinamica, erotica.
Questi corpi verranno rielaborati negli acquarelli più maturi di corpi erotici femminili, anch’essi evidentemente mortali anche allorquando estremamente erotogeni, moventi, sensuali, accoglienti e datori di vita. Nella corporeità erotica umana, femminile per eccellenza in quanto vitale perché generatrice di vita, pluripotenziale anche se mortale, éros e thánatos si danno assieme.
Viviamo con Giletta la rapidissima, istantanea concretizzazione viva e colorata di un fluido erotico vitale eccedente sempre la sua concrezione mortale, per questo segnata dalle ferite e ombre del tempo anche e proprio quando senza spazio né futuro né passato, ora presente in nessun luogo, per indurci in commozione. Non possiamo non chiederci se siamo di fronte all’umile, mortale incarnazione di un’energia divina in accoglienti corpi femminili esposti fino al consumo e alla devastazione. E l’incarnazione è il primo mistero di accesso cristiano all’umano-divina dimensione. Immoti danzano corpi femminili seducenti eppure ripugnanti, erotici e mortali, sensuali e scarni, segnati dalla consumazione temporale ma anche innescanti vitalità e vita viva. Sempre parzialmente coperti di vestiti, panneggi colorati, seminudi ma senza volto visibile, o del tutto fuori pittura oppure nascosto dalla chioma, soltanto in un caso forse osservabile per tre quarti di sfuggita, tuttavia intuibile solo al modo quasi umbratile dei gilettiani volti.
Eccoci dunque all’altro grande soggetto della trinità gilettiana, accanto alle femmine, o corporeità erotica mortale, i volti, anch’essi acquarellati, ma con tratti su carta bianca diafani, appena emergenti dal vuoto, nella infinita, quasi ossessiva ricerca dello stesso nei molti, differenti umani. Come sostenuto dall’artista stesso, qui siamo sulla sottile linea d’ombra fra maschera e ritratto, simbolo e rappresentazione. Direi che questa stretta striscia di terra fra roccia e fiume, meramente esistente, primissima apparizione di vita umana e forse sua possibile ultima significazione, prima di sparire, non possa esser non dico compresa e transitata, ma semplicemente lambita, accolta, senza vederla accanto ai corpi e, in terzo ma primissimo luogo atopico, se non come indifferenza positiva fra l’abissale vicinanza di corpi e forme, altro originario soggetto pittorico di Ugo Giletta.
A testimoniare la trinitarietà circolare, eppure aperta a un quarto impossedibile e intransitabile, della pittura gilettiana, non possiamo già qui accedere direttamente ai volti, ma dobbiamo necessariamente fare un passo indietro, in quel senza tempo né luogo, del vero soggetto originario di Giletta, la forma. Tutto il primo periodo e la originaria dimensione pittorica successiva alle opere giovanili è dedita all’unico per eccellenza, detto forma simbolica, forma, infine in sue variazioni anche riforma. La forma di Giletta è un graffito monolitico originario. Disegnata a grafite su sfondo monocromatico, nella sua netta unicità, tagliente e creativa, originaria e stagliantesi sul nulla oscuro, essa ci mostra simbolicamente, quindi in modo estremamente sensibile, meta-fisicamente empirico, l’unico in molti modi, a originare e captare assieme l’originaria luce in minime, infime, infinite rifrazioni della sua compattissima, irrevocabile tessitura creativa. Qui il significato è il significante stesso (una roccia o pietra monolitica? l’asse del cosmo fra terra e cielo all’origine acuta, ferente il nostro mondo?) nonché il segnante il segno dell’artista: la mera grafite della matita maneggiata.
Nella forma, rigraffiata in infinite variazioni dello stesso, tanto più formata e riformata incessantemente quanto più invisibile nel suo volto inaccessibile, abbiamo il simbolo dell’unico, pilastro dell’universo mondo, acuto monolite dinamico, graffito originario, eternamente prima di ogni pur preistorico graffito rupestre o sacro monolite, più acuto e svettante di tutte le guizzanti cime del pianeta o di altri astri e mondi. Per fare un accenno biografico, una vetta inaccessibile nel suo volto più severo o ridente, abissale, eppure monte visibile nelle sue sfumate linee e inesauribili energie, come il Vesulus pinifer, il Monte Viso alla cui ombra Giletta cerca la luce ultima e prima nella pittura. La sua forma simbolica è lo Yang puro, originaria luce propriamente senza forma, azione creativa prima inesauribile, eppure già simbolo, cioè prima faccia visibile dell’innominabile e intransitabile e immemorabile inizio o via, maschera simbolica dell’unico, nemmeno dicibile Dio.
Giletta graffia qui pazientemente e rapidamente assieme, fuori del tempo e in un tempo infinito, lo spazio vuoto, oscuro, con raggi umili, terreni, vibranti, ma forti, rocciosi, litici. Il guizzo originario che ne viene è eterno e dinamico assieme, unico o fonte di ogni creazione, netto da un lato, sia per via della linearità del suo limite e del pieno colore, sfumato dall’altro per la soffiata curvatura fecondatrice e le sfumature del tratteggio, calorosi movimenti creativi ex nihilo, attraversato in un perenne lampo atopico dalla punta acuminata. Poi a un primo gruppo di forma unica, ecco che si affianca la riforma, forma che ha già visto nascere un cosmo luminoso grazie e accanto alla sua forma creatrice stagliantesi sul nulla scuro. Oppure, altro gruppo più onirico o mentalmente costruito, la forma in sospensione sulla foto di una altrettanto originaria bambina.
Questa è simile alla sophía veterotestamentaria, verginea possibilità di ogni futura creazione, coeterna all’unico prima della creazione e non altra dall’unico benché distinguibile forma dalla forma simbolica, addirittura ritrattistica raffigurazione, immediata immagine, fotografia diretta dell’innocente pluripotenziale volto. Circolarmente, senza costrizione, siamo rinviati alla matura raffigurazione, ai ritratti, senza volto, della corporeità femminile eroticamente mortale, ma anche, secondo uno sdoppiamento del puro volto eternamente originario della infante bambina, agli asessuati volti afigurativi, non ritratti, ma nemmeno maschere simboliche, puramente essenti senza essere quasi visti né rivolti ad alcuno spettatore.
Come i corpi femminili, eroticamente mortali, i volti di Giletta sono acquarelli su carta o tela, a rendere la pelle nuda, la nuda vita, eternizzata pur nella sua mortalità, esistenza senza perché, di cui mostra semplicemente che è. Ma l’acquarello non dona soltanto, istantaneamente fissato, l’apparire mortale, umbratile, lo espone anche, diafano, a una luce altra, giunta da nessun dove, di cui sono eroticamente energizzati i corpi, da cui emergono i volti. Dalla purissima, prima roccia silicea, iniziale grido pietrificato nel movimento eterno di cre-azione, scaturisce pura l’acqua che dà vita, senza volto e senza figura, eppure grazie alla originaria forma e in corpi mortali e volti spirituali. Rispetto al puro Yang della forma monolitica originaria, maschera senza forma, simbolo dell’unico creatore del cosmo, nonché al puro Yin delle delineate raffigurazioni corporee femminili, erotiche fino alla morte, formose eppure scarne, ritratte ma senza volto, rappresentazione dell’energia umana nel mondo, i volti possono vedersi intuitivamente né Yin né Yang, e Yang e Yin, fra Yin e Yang, come acutamente delineato da Giletta a metà tra ritratto e maschera, simbolo e rappresentazione. Similmente all’oracolo di Delfi, secondo Eraclito, il volto né dice né nasconde, semaínei, significa, fa cenno senza orientazione.
Se acuta si espande come un grido di pietra la cre-azione, unica formante forma primordiale, accoglie per prima l’acqua, molle e mobile, la vita, in corpi in tensione ad accogliere ogni guizzo energetico, ma anche in spiritualizzati volti umani giunti dall’unico, da cui sono, benché non più ad esso rivolti, ma senza consolazione. E’ la prima traccia dell’uomo, la cellula organica primitiva fra roccia e corpo, inizio e incarnazione, un antropico uovo cosmico a rivelare l’epifania dell’unico nei molti, negli infiniti differenti volti dell’universo nostro mondo. I volti di Giletta sono teste spesso senza orecchie e chiome, solo con cinque macchie o scuri fori per occhi, narici e bocca: cinque spazi elementari, a definire umbratilmente un ovale immortale. Alcuni poi replicano concentricamente il volto, quasi a renderne ancora più flebile l’eco della inespressa voce.
Quasi a occhi chiusi o privi di visione, senza olfatto o gusto, tantomeno sensibilità o udito, senza senso e senza sensi, i volti gilettiani non sono volti verso qualcosa, un fine o un dove, né rivolti a qualcuno che li veda, ma da un nessundove e un nessuno volti: participio eternamente passato, senza tempo né partecipazione, flebile ipostasi poco più che acquatica e insufflata, volti come nuvole, di mera vita umana, senza perché infinitamente interrogativi, inquietanti ogni visione. Sindoni infinite, epifanie invisibili, diafane vuote apparizioni, poco più che ombre o aure spirituali, angeliche persone – tanti i divini nomi di siffatti volti elementari degli uomini, dell’androgino originario riflesso in differenti esistenze prima di ogni sessuale e razziale, temporale e personale in-formazione.
Ritroviamo questi volti anche nelle sculture di Giletta, a elevare come leggeri palloncini al cielo scarni scheletri fatti di filamenti metallici ritorti.
Oppure nei video, ove la motilità facciale è fissata in eterno, nel perfetto télos del fermo immagine reiterato, ad ogni sussulto od emozione, indugio o vibrazione, mentre il corpo è dinamicamente erotico senza scopo, né quieta glorificazione, se non nella sua pesantezza mortale, cadaverica, sino alla nuda deposizione. E’ comunque propriamente nei volti che, universale singolari, spiriti santo, purissimi nell’indifferenza fra potenza e atto, infine e senza fine la nostra inquietudine sola si apre all’unico, anche se senza sensi, certezze, intellezioni.
In essi possiamo stupire a vuoto, toccare senza mani, amare incorporali, e rivolgere lo sguardo rigirato dal cosmo a penetrare, intuire meta-fisicamente l’incarnazione nelle corporeità femminili come figlie dell’unico, amore più forte della loro morte poiché invisibile a-mors del corpo trasfigurato, dia-fano, che ne immortalizza divinamente la mortalità nell’amore eroticamente suscitato, non più necrofilmente limitato. Ma allora ecco il guizzo dell’unico nella singola femmina, figlia non unica dell’uno, nel corpo mortale eroticamente trapassata dall’uomo e invisibilmente trasfigurato: il volto singolare e il graffito originario sono tragicamente assieme, uniti nonostante la dia-ferenza abissale, radicale, dicono distanti come visi e pareti di vette le più elevate: unum sumus, uno siamo. L’atto puro eternamente unico e la molteplicità differenziata dei volti, ciascuno stesso, ipse, perché infinitamente vibrante delle altrui variazioni, mostrano l’unità nella stessa mortale lacerazione, eroticamente potenziale come raffigurato nei mobili corpi femminili. Quell’originaria bambina pluripotenziale è nuovamente accanto alla forma-graffito unico. Non più visibili entrambi, restano l’originario giudizio, Ur-theilung, dell’inunibile unione e separazione mai congiunta né eternizzata fra volto e corpo, essere e pensiero, spirito incarnabile e incarnazione divinizzabile. La stupore per il mero che del volto, la meraviglia terribile di fronte alla mortale bellezza del multiforme e pluricolore corpo non sono che la stessa comunione trinitaria, accomunante ogni distinta dimensione: e forma-graffito unico affiancato dalla bambina rispecchiante la creazione e figlie corporee e volti-spiriti santo, a stupire ignorantemente di vertigine, sospesi su un inizio purissimo ancora sempre intuibile, a occhi chiusi, nero e bianco e multicolore assieme.
Bibliografia
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F. Tomatis, Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao Tzu, Bompiani, Milano 2007.
Francesco Tomatis, nato a Carrù (Cuneo) nel 1964, è professore ordinario in filosofia teoretica all’Università di Salerno e istruttore di Kung Fu classico cinese della Scuola Chang. Collabora con “Avvenire”, “La Rivista del Club Alpino Italiano”, “Ousitanio Vivo”. Ha pubblicato: Kenosis del logos (1994), Ontologia del male (1995), L’argomento ontologico (1997), Escatologia della negazione (1999), Pareyson (2003), Filosofia della montagna (2005), Come leggere Nietzsche (2006), Dialogo dei principi con Gesù Socrate Lao Tzu (2007).
Exibart, mostra visitata il 16 dicembre 2008
Roma, LipanjePuntin
Una quarantina di volti dai contorni indefiniti. Con sguardi fissi, osservano fermamente chiunque varchi la soglia della galleria. Apparentemente privi d’identità, sono visi afoni e vaghi. Ancor più evanescenti grazie all’uso dell’acquarello...
pubblicato mercoledì 28 gennaio 2009
Superata la soglia della galleria, difficilmente si può evitare un certo senso d’inquietudine, quasi di soffocamento. Poiché il visitatore si ritrova a confronto con una folla di visi, dipinti da Ugo Giletta (Revello, Cuneo, 1957: vive a Manta, Cuneo), che puntano tutti insieme il loro sguardo nella sua direzione. È come entrare nella nebbiosa quiete di Spoon River e aggiungere la “foto” agli epitaffi dei personaggi di Edgar Lee Masters.
Queste impronte di uomini sono impersonali e rarefatti non-ritratti ridotti all’osso. La loro scarna semplicità è una sorta di Esercizio di stile alla Queneau, in cui lo stesso soggetto viene rivisto, rivisitato e ancora rivisto e rivisitato e riprodotto, in diversi formati, quasi all’infinito. L’evanescenza è enfatizzata dall’uso esasperato dell’acquerello, disteso su carta o tela. Ma ogni volta Giletta tratta il proprio soggetto partendo da un punto diverso e toglie qualcosa, per raggiungere una totale, spoglia essenzialità. La sua è una “pittura trinitaria”, come l’ha definita Francesco Tomatis, perché “ci troviamo immessi in una dimensione la cui comunione di distinti è sovrasostanziale”.
È una moltitudine di silenziose teste che scruta il visitatore, come a voler leggere al suo interno, oltre la massa della carne. Apparentemente, questi volti - privi di una particolare connotazione di sesso ed età - sono tutti uguali. Sono quasi chiazze di colore in cui tutto è ridotto al minimo, se non addirittura assente. Minimale è infatti il cromatismo, marrone e grigio-blu, ed è del tutto mancante qualsiasi riferimento temporale, spaziale o descrittivo. Per questo appaiono tristemente solitari. Assomigliano alle teste conservate nei musei archeologici: melanconicamente isolate sul loro piedistallo.
Ma, se guardati attentamente, quei volti rivelano impercettibili differenze che li caratterizzano. Una piccola variazione del tono, la macchia di colore leggermente allargata o allungata, una casuale ombra vicino ai fori che indicano gli occhi o la bocca conferiscono precisi identità e stato d’animo. Senza l’urlante angoscia munchiana, descrivono timidezza, smarrimento, incredulità, desolazione, solitudine. E quell’inquietudine iniziale, data dall’insieme: “Se isolati”, racconta Giletta “iniziano ad aprirsi, a diventare altro, ad allinearsi all’umore che hai tu in quel momento, un po’ piangono e un po’ ridono, un po’ acconsentono e un po’ accusano”.
Afflato di vita che, usando le parole di Nico Orengo, trasforma quelle “macchie d’esistenza”, quei “fantasmi”, quegli sguardi privi di luce - o che acquistano la luce dagli occhi di chi guarda - in presenze alle quali “riesco a dare memoria e consistenza, mi diventano strappi in vecchie carte da parati”. Senza la loro particolare fisionomia diventano i muti Washington McNelly, Mary McNelly, Samuel Gardner, Lambert Hutchins e tanti altri, simboli senza tempo delle sempre uguali emozioni umane.
Testo per la mostra: Apparizioni, Legami (2022 a cura di Antonio Zimarino), Cisterne di Palazzo Acquaviva. Atri TE Italy.
Apparizioni, legami
L'arte contemporanea può essere qualcosa di nuovo nel momento in cui non celebra se stessa, nel momento in cui non intende porsi come definizione di una forma, di una verità ma quando piuttosto, cerca di proporci un problema o una possibilità di comprendere qualcosa di nuovo. Le differenze rilevano identità e insieme, anche "che cosa" le opere possono dire e suggerire, che cosa in loro, nella loro struttura formale, prima ancora che contenutistica, rilevano e rivelano a chi intenda avventurarsi con loro nell'ipotesi del loro possibile senso.
II lavoro di Ugo Giletta, si muove tra media artistici diversi: scultura (in cera), pittura o video: appare quindi particolarmente interessante cercare il "legame” che consenta di afferrare un nesso chiaro in questa diversità. Appaiono volti e piccole teste in forme di abbozzo: cenni di identità ancora da definirsi, sul limite appena percepibile tra l'essere e l'esistere, tra certo e possibile, tra immaginato e realizzato: paiono davvero essere dei fantasmi. Nei video invece, è restituita la realtà di volti e delle situazioni. In realtà sia le figure che i video sono accomunati da un "legame" profondo che è insito nell'etimologia antica della parola phantasma che indica l'idea di "apparizione" e rivelazione, e nell'antichità greca e romana esso non era mai associata, come per noi oggi, alla paura. Le figure sono sempre delle apparizioni, "formate" nella cera duttile e non deformate partendo da qualcosa che esisteva; i video sono apparizioni perché concepiti in una logica estetica e percettiva non narrativa. Queste non sono figure del "decadimento", della dissoluzione o del disfacimento ma della "rivelazione", del primo apparire di una identità.
Le sculture, i volti sono il nascere dell'idea, la rivelazione della persona: questo termine e molto probabilmente di origine etrusca e indicava la "maschera teatrale" ma successivamente fu utilizzato anche in teologia, per indicare un "corpo" vivente considerato sia come elemento a sé stante, sia come facente parte di un gruppo o di una collettività, senza connotazione di sessualità. L'arte di Ugo Giletta è dunque l'arte della rivelazione, del "sorgere" dell'apparire dalla memoria, dall'idea, alla vita possibile, le immagini si sospendono prima che le forme del reale vengano categorizzate e definite, restando aperte ad ogni possibile senso e mistero; suggeriscono non l'oblio ma il desiderio dell'essere. Restano sospese perché lì, in questa sospensione c’è qualcosa che riempie il cuore, perché lì c'è tutto ii possibile, tutto l'infinito da pensare, tutte le storie da immaginare, tutte le cose da vivere.
Apparitions, bonds
It's when it does not celebrate itself, when it does not intend to set itself as the definition of a form or a truth but rather when it seeks to suggest a question or add the chance to understand novel issues, that contemporary art can be something new. Differences detect identity and concurrently they can on their own indicate and suggest "what" artworks want to tell, "what" inside artworks - inside their formal structure before the structure of content - they notice and reveal to those who dare venture with them into the hypothesis of a possible sense.
Ugo Ciletta's artistic work shifts among different artistic media: (wax) sculpture, painting or video: finding the "bond" that allows to grasp a clear connection in this diversity seems then particularly interesting. Faces or tiny heads that are no more than sketches might appear: hints of an identity that is still to be defined, on the barely perceptible edge between being and existing, between certain and possible, imagined and created: they all really seem to be phantoms. In the videos instead, faces and situations are given back of their reality. Actually both the figures and the videos share a deep "bond" which is inherent to the ancient etymology of the word phantasma, that refers to the idea of "apparition" and revelation, and in the ancient Creek and Roman society was never associated to fear, as we intend it in modern times. Figures are always apparitions, that "are formed" in the malleable wax and not deformed from something already existing; videos are apparitions for the fact that they are conceived in a non-narrative perspective which is purely aesthetic and perceptive. These are not the figures of "decay", dissolution or disruption, these are the figures of the "revelation", of the first appearance of an identity.
The sculptures, the faces are the rise of the idea, the revelation of the persona: a term whose origin was probably Etruscan, where it referred to the "theatrical mask" and it was later used in theology to indicate a living "body", considered both as a single, independent element, and as the part of a group, or a community, devoid of any gender connotations.
Ugo Ciletta's art is therefore the art of revelation, the art of the "rising", something that appears to memory, from the idea to the possible life, images remain suspended before the shapes of reality get categorized and defined, and stay open to every possible sense and mystery; not the oblivion, but the desire of being. They remain suspended because, in this suspension, there is something that fills the heart, because all the possible is in there, all the infinity to be thought, all the stories to be imagined, all the experiences to be lived.
© TEXT: Notes on the work of Ugo Giletta by Lorand Hegyi